GABRIELE D'ANNUNZIO

Figura leggendaria di soldato, intellettuale, poeta e scrittore, oltre alle gesta di pilota conobbe da vicino le esperienze più terribili della prima linea come si può leggere nella sua tragica descrizione della decimazione dei Fanti della Brigata “Catanzaro” alla quale assistette. Svelò dinnanzi alla guerra un animo sorprendentemente sensibile, il che va molto al di là dello “stereotipo” decadente proposto da altri nel dopoguerra. Aviatore fra i più coraggiosi perse un occhio a seguito di un atterraggio di emergenza; nonostante ciò rimase sempre un soldato sul campo e non da meno sul mare dove più di una volta osò l’inosabile a bordo dei MAS. Amico sincero di alcune fra le più grandi figure di militari italiani della Grande Guerra, ad esempio Ettore Viola con il quale condivise l’avventura fiumana, ebbe invece un rapporto sempre più controverso con Mussolini il quale cercava invece di sfruttarne la carismatica figura. Dopo l'impresa fiumana, a causa delle sempre peggiori condizioni di salute, vivrà dal 1921 prima ritirato e poi di fatto recluso sul lago di Garda nel suo Vittoriale di Gardone Riviera (Brescia) dove morirà nel 1938. Al di là di quanto universalmente risaputo, desideriamo riproporvi alcune righe emblematiche dove rileggere tanto la parte meno conosciuta del suo spirito così come quella più nota per essere votata all’estremo ardimento, sull’aria e per mare.

Dissanguata da troppi combattimenti, consunta in troppe trincee, stremata di forze, non restaurata dal troppo breve riposo, costretta a ritornare nella linea del fuoco (…), l’eroica Brigata "Catanzaro" una notte, a Santa Maria la Longa, presso il mio campo d’aviazione si ammutinò. (…) La sedizione fu doma con le bocche delle armi corazzate. Il fragore sinistro dei carri d’acciaio nella notte e nel mattino lacerava il cuore del Friuli carico di presagi. Una parola spaventevole correva coi mulinelli di polvere, arrossava la carrareccia, per la via battuta: "La decimazione! La decimazione!". L’imminenza del castigo incrudeliva l’arsura (…) Di schiena al muro grigio furono messi i fanti condannati alla fucilazione, tratti a sorte nel mucchio dei sediziosi. Ce n’erano della Campania e della Puglia, di Calabria e di Sicilia: quasi tutti di bassa statura, scarni, bruni, adusti come i mietitori delle belle messi ov’erano nati. Il resto dei corpi nei poveri panni grigi pareva confondersi con la calcina, quasi intridersi con la calcina come i ciottoli. E da quello scoloramento e agguagliamento dei corpi mi pareva l’umanità dei volti farsi più espressiva, quasi più avvicinarmisi, per non so qual rilievo terribile che quasi mi ferisse con gli spigoli dell’osso. I fucilieri del drappello allineati attendevano il comando, tenendo gli occhi bassi, fissando i piedi degli infelici, fissando le grosse scarpe deformi che s’appigliavano al terreno come radici maestre. Io traversavo il muro col mio penoso occhio di linee; e scoprivo i seppellitori anch’essi allineati dall’altra parte con le vanghe e con le zappe pronti a scavare la fossa vasta e profonda. Non mi facevano male come gli sguardi dei condannati alla fossa. I morituri mi guardavano. I loro sguardi smarriti non più erravano ma si fermavano su me che dovevo essere pallido come se la vita mi avesse abbandonato prima di abbandonarli. Gli orecchi mi sibilavano come nell’inizio della vertigine, ma era il ronzio delle mosche immonde. Siete innocenti? Forse trasognavo. Forse la voce non passò la chiostra de’ miei denti. Ma perché allora il silenzio divenne più spaventoso, e tutte le facce umane apparvero più esangui? E perché l’afa del mattino d’estate s’approssimò e s’appesantì come se il cielo della Campania e il cielo della Puglia e il cielo della Calabria e il cielo di Sicilia precipitassero in quell’ardore fermo e bianco? Siete innocenti? Siete traditi dalla sorte della decimazione? Si, vedo. La figura eroica del vostro reggimento è riscolpita nella vostra angoscia muta, nell‘osso delle vostre facce che hanno il colore del vostro grano, di quel grano grosso che si chiama grano del miracolo, o contadini. Siete contadini. Vi conosco alle mani. Vi conosco al modo di tenere i piedi in terra. Non voglio sapere se siete innocenti, se siete colpevoli. So che foste prodi, che foste costanti. La legione tebana, la sacra legione tebana, fu decimata due volte. Espiate voi la colpa? O espiate la Patria contaminata, la stessa vostra gloria contaminata? Ci fu una volta un re che non decimava i suoi secondo il costume romano ma faceva uccidere tutti quelli che nella statura non arrivassero all’elsa della sua grande spada. Di mezza statura voi siete, uomini di aratro, uomini di falce. Ma che importa? Tutti non dobbiamo oggi arrivare con l’animo all’elsa della spada d’Italia? Il Dio d’Italia vi riarma, e vi guarda. I fanti avevano discostato dal muro le schiene. Tenevano tuttora i piedi piantati nella zolla ma le ginocchia flesse come sul punto di entrare nelle impronte delle calcagna. E, con una passione che curvava anche me verso terra, vidi le loro labbra muoversi, vidi nelle loro labbra smorte formarsi la preghiera: la preghiera del tugurio lontano, la preghiera dell’oratorio lontano, del santuario lontano, della lontana madre, dei lontani vecchi. (…) Le armi brillarono. (…) M’appressai. Attonito riconobbi le foglie dell’acanto (…). Recisi i gambi col mio pugnale. Raccolsi il fascio. Tornai verso gli uomini morti che con le bocche prone affidavano al cuor della terra il sospiro interrotto dagli uomini vivi. E tolsi le frasche ignobili di sul frantume sanguinoso. Chino, lo ricopersi con l’acanto. (G. D’Annunzio - Per l’Italia degli Italiani, riportato in “La Panarie”).

“In onta alla cautissima flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i Marinai d'Italia, che si ridono d'ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l'inosabile. E un buon compagno, ben noto - il nemico capitale, fra tutti i nemici il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro - è venuto con loro a beffarsi della taglia” (Testo del messaggio lasciato da D'Annunzio penetrato con i MAS nelle acque di Buccari – 11 febbraio 1918).

VIENNESI! Imparate a conoscere gli Italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà. Noi Italiani non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne. Noi facciamo la guerra al vostro governo nemico della libertà nazionale, al vostro cieco testardo crudele governo che non sa darvi né pace né pane, e vi nutre di odio e di illusioni. VIENNESI! Voi avete fama di essere intelligenti. Ma perché vi siete messa l'uniforme prussiana? Ormai, lo vedete, tutto il mondo s'è volto contro di voi. Voi volete continuare la guerra? Continuatela. E' il vostro suicidio. Che sperate? La vittoria decisiva promessavi dai generali prussiani? La loro vittoria decisiva è come il pane dell'Ucraina: si muore aspettandola. POPOLO DI VIENNA, pensa ai casi tuoi. Svegliati! VIVA LA LIBERTÀ VIVA L'ITALIA VIVA L'INTESA ! (da uno dei volantini lanciati da G. D’Annunzio durante il “volo su Vienna” del 9 agosto 1918)

Il comunicato ufficiale del Comando Supremo reciterà:  “Zona di guerra, 9 agosto 1918. Una pattuglia di otto apparecchi nazionali, un biposto e sette monoposti, al comando del maggiore D'Annunzio, ha eseguito stamane un brillante raid su Vienna, compiendo un percorso complessivo di circa 1.000 chilometri, dei quali oltre 800 su territorio nemico. I nostri aerei, partiti alle ore 5:50 (1), dopo aver superato non lievi difficoltà atmosferiche, raggiungevano alle ore 9:20 la città di Vienna, su cui si abbassavano a quota inferiore agli 800 metri, lanciando parecchie migliaia di manifesti. Sulle vie della città era chiaramente visibile l'agglomeramento della popolazione. I nostri apparecchi, che non vennero fatti segno ad alcuna reazione da parte del nemico, al ritorno volarono su Wiener-Neustadt, Graz, Lubiana e Trieste. La pattuglia partì compatta, si mantenne in ordine serrato lungo tutto il percorso e rientrò al campo di aviazione alle 12:40. Manca un solo nostro apparecchio che, per un guasto al motore, sembra sia stato costretto ad atterrare nelle vicinanze di Wiener-Neustadt” (2).

S. Pelagio (PD), 9 agosto 1918: gli equipaggi della 87a Squadriglia “Serenissima” protagonisti del “Volo su Vienna”; da sinistra Gino (Girolamo) Allegri, Francesco Ferrarin (rientrato per avaria), Pietro Massoni, Aldo Finzi, Natale Palli (il pilota personale di D’Annunzio, ritratto nell’abitacolo), Gabriele D’Annunzio, il Generale Luigi Bongiovanni, Alberto Masprone (rientrato per avaria), Antonio Locatelli, Bruno Granzarolo, Vincenzo Contratti (rientrato per avaria) e per ultimo Lodovico Censi. Manca nella foto Giuseppe Sarti, costretto a un atterraggio di fortuna su Wiener Neustadt e poi catturato dopo essere riuscito a incendiare il proprio velivolo.

Gabriele D’Annunzio e il suo pilota personale, Natale Palli, ritratti davanti al loro “SVA” utilizzato per il famoso “volo su Vienna”. Il Vate indossa alla cintura il pugnale da Ardito regalatogli dall’amico Capitano Ettore Viola, “l’Ardito del Grappa”, uno degli ufficiali più decorati nella storia del Regio Esercito e al quale è dedicata una pagina di questo sito.

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