GIOVANNI FRACASSO - 219° REGGIMENTO FANTERIA

Il Soldato Giovanni Fracasso, nato a Chiampo l’8 settembre 1884, figlio di Romano e di mamma Candida Grigola; aveva tre fratelli: Giuseppe, Antonio e Celeste. Era un giovane alto poco metro di un metro e sessanta, di professione contadino, dagli occhi e dai capelli castani, lisci. Dopo la leva nel Battaglione Alpini “Vicenza”, nel quale era giunto il 30 dicembre del 1904, in seguito a rivista fu poi trasferito al 1° Reggimento Fanteria e quindi al Deposito di Verona sino al congedo avvenuto il 10 settembre 1907. Secondo il suo foglio matricolare fu richiamato alle armi dopo lo scoppio della Grande Guerra non appena entrò in vigore anche la mobilitazione delle classi meno giovani, e di conseguenza assegnato dal 24 ottobre 1915 al 15° Reggimento Fanteria della Brigata “Savona”, un reparto destinato dapprima sul Carso, nel settore del Monte Sei Busi. Da quel momento, così come accadde per molti soldati, la sua storia personale ben presto si confonde nel turbinio del conflitto e spesso solo grazie alle lettere scritte alla famiglia si riesce a seguire parzialmente il complicato percorso che lo porterà purtroppo, dopo meno di un anno, al suo tragico appuntamento con il destino. Sono piccole missive scritte nel lessico di allora, con grafie differenti, talvolta probabilmente quelle di un commilitone o del Cappellano, e che rispecchiano quello che era il tenore assai rispettoso nei rapporti familiari; preferiamo riportarle rispettosamente nel loro contenuto integrale di oltre un secolo fa perché tra le loro righe non è raro commuoversi dinanzi alla semplicità e all’onestà dell’Italia contadina di allora, povera ma dignitosa, che diede però quei soldati che alla fine sconfiggeranno sul terreno uno degli eserciti più potenti del mondo. Vi leggiamo fin da subito una delle preoccupazioni di Giovanni, ormai definitivamente in divisa militare, ovvero quella di fare avere suoi preziosi abiti civili alla famiglia. Così, in una lettera dell’ottobre del 1915, nella quale comunica al padre il trasferimento dal Deposito di Verona a Ravenna, Giovanni aggiunge che “… l’abito mio borghese l’ho dato a un mio amico di Trissino, che l’è quel toso che l’è sta a trovarme casa nostra la primavera scorsa, e che si chiama […] Domenico, e lo porta da un suo zio che sta qua a Verona, quindi ha detto che se ne incarica lui di farvelo avere quando spedirà il suo…”. E poi quella che sarà una costante nelle lettere di tutti i combattenti della Grande Guerra, ovvero il cruccio per la famiglia rimasta in ansia, da tranquillizzare a ogni costo, anche se si sapeva bene che si stava per andare in prima linea: “Io sto bene, così spero di voi tutti, e non prendetevi pensieri che io sono allegro. Vi saluto tutti di famiglia, un distinto saluto a mia moglie, e un baccio alla mamma e uno al […]. Ricordatemi che mi ricorderò di voi, e sono vostro figlio Giovanni”. Parole semplici ma in grado di svelarci ancora una volta quell’universo di sentimenti e di affetti familiari che la Grande Guerra spezzò per sempre e del quale nessuno, se non queste righe affidate a piccoli foglietti di carta, potrà mai dar conto.

È il 19 ottobre 1915 quando Giovanni, giunto a Ravenna (forse temporaneamente o in transito per essere poi destinato oltre mare), comunica di essere presso la caserma dell’80° Reggimento Fanteria, confessando al padre che la situazione è tutt’altro che florida e se “… manderebbe un pocco di denaro perché qui e un pocco magra, qui si prende due soldi al giorno e anche per il mangiare le molto magra che la si fa anche pane e formaggio…”. Giovanni è poi preoccupato della situazione dei campi, a casa: “… mi farette sapere se avete seminato il frumento. Altro non mi resta di salutarvi di vero cuore, unita tutta la famiglia e tanti baci alla mia madre e salutate tutti quelli che mandano di me…”. Nonostante si cerchi di non allarmare la famiglia, in una lettera di giovedì 18 ottobre (più probabilmente novembre) 1915, inviata da un luogo sconosciuto, Giovanni ammette di essersi salvato e fa trasparire tutti gli orrori della guerra: “Caro padre ho fede di venir giù dalla montagna e ho fede di andare un pocco di tempo a riposo in […] E ringraziando Iddio son venuto giù dalla montagna sano e prechiamo che non diamo altro in cima perché ho veduto di tutto e toccato di tutto, perché quello che non a venuto non sano niente…”. Anche per questo Giovanni si rallegra che uno dei fratelli è stato riformato dal servizio militare ed è tornato a casa: “Questa è una grande fortuna, beato anche me se fossi nei suoi passi…”. In un altro biglietto, sulla terza pagina della missiva precedente, il pensiero va poi alla moglie; la frase si conclude con tre parole che la dicono lunga sulla terribile esperienza che Giovanni, umanamente incapace di nasconderla del tutto, fa involontariamente trasparire: “Carissima moglie, vengo con queste due righe per farti sapere se prendi paga sì o no, altro non mi resta da salutarti di vero amore e gli darai tanti baci al nostro caro figlio […] e prega per me…”. Quello che la giovane moglie di Giovanni non può sapere è che in quei giorni egli sta combattendo nella terza battaglia dell’Isonzo, durante gli assalti contro le q. 112 e 118 di Monte Sei Busi dove il 21 novembre la Brigata “Savona”, proprio con il 15° Fanteria, aveva conquistato alcune trincee catturando circa 500 prigionieri. La brigata registrò però ben 1.700 uomini fuori combattimento e per il sacrificio dimostrato in quei giorni dai suoi Fanti la bandiera del 15° Fanteria di Giovanni Fracasso venne decorata con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare.

Postazione di artiglieria contro-aerei nel settore di Monte Sei Busi (Collezione Stefano Aluisini).

Il Monte Sei Busi a Redipuglia (sulle sue pendici inferiori, nel dopoguerra, sarà edificato il grande Sacrario Militare - Archivio Storico Dal Molin)

Le trincee sconvolte del Monte Sei Busi in una fotografia dell’Archivio Storico Dal Molin

Truppe italiane in Albania durante la Grande Guerra (da una rivista dell’epoca)

Poco più di un mese dopo il desiderio di Giovanni di lasciare il Carso venne accolto dal destino poiché in una lettera dell’11 dicembre 1915 il giovane comunicò al padre di essere arrivato via mare con il proprio reparto in Albania, dove il 15° Fanteria era stato trasferito con la Brigata “Savona” a partire dal 26 novembre, sbarcando il 2 dicembre 1915 a Valona e raggiungendo Durazzo il giorno 19: “Alla presente qui sto bene che qui non ce guerra e spero che continua così […] Noi siamo partiti da Valona a piedi perché non ce strade e ne ferrovie e siamo sempre in viaggio fino alla frontiera della Serbia e avremo venti giorni di marcia. E voialtri statte pure allegri che io ancora che sono lontano, io mi trovo contento lostesso di essere venuto via da […] il brutto monte Sei Busi, che qui si sta in pace e la temperatura del tempo è come una bella primavera, e qui questo tempo si mangia le angurie, dunque io sto bene…”. Questa volta il terzo foglietto è per il padre, al quale Giovanni non nasconde le sue speranze sulla fine della guerra: “… dunque quando mi scrivete fatemi sapere qualche notizia del paese, se dicono qualche cosa della pace, perché qui dicono anche li nostri ufficiali che presto devono venire la pace, la pace presto…”.

Nella lettera del 3 gennaio 1916 dall’Albania, Giovanni rassicura tutti della sua incolumità ma, come sempre, si preoccupa di non aver ricevuto notizie del padre; dopo alcune righe inizia il racconto di una scena di guerra: “Caro padre dovete sapere che il 29 di dicembre (1915) ho veduto il bombardamento in mare qui a Durazzo delle navi tedesche con quelle italiane […] tre tedesche sono state fondate [il cui seguito viene però cancellato con del carbone nero, assai probabilmente dalla censura militare che controllava la corrispondenza dei soldati]. E tra i tanti pensieri del soldato per la casa, i campi e il bestiame c’è sempre quello per la sospirata pace: “… e fatemi sapere anche come di questa pace perché qui non si sa niente dunque voialtri potrete sapere qualche cosa meglio di me…”. Il secondo foglio è per l’amata moglie alla quale chiede se sia riuscita a prendere il sussidio ma soprattutto notizie del bambino, “… se mio figlio sta bene e se camina da solo; altro non mi resta che salutarti e prega per me che in fra l’anno possa venire a casa e salutami tanto la tua famiglia, adio sta bene…”. Dall’indirizzo in calce abbiamo la conferma che in quel momento Giovanni Fracasso si trovava ancora in forza alla 2a Compagnia del 15° Reggimento Fanteria della Brigata “Savona”, appartenente al Corpo d’Armata Speciale operante in Albania.

Il successivo 22 gennaio 1916 il soldato ringrazia innanzitutto il padre perché “ho ricevuto la vostra lettera sicurata e lire dieci dentro dunque io non potete immaginare quanta contentezza che ho avuto nel sentire che siete tutti in buona salute […] Caro padre io vi ringrazio molto del denaro che mi avete mandato perché aveva molto bisogno, dovete sapere che io del denaro ne tengo molto da conto che spendo e nel pane e nel vino dal tempo che sono venuto via dall’Italia non neo più bevuto perche non cene”. La quarta paginetta della lettera è per la moglie: “carissima, o sentito nella lettera del mese di novembre che non ai ancora ricevuto paga [il militare intende il sussidio per i familiari]. Devi sapere che io o fatto domanda qui al mio capitano e le carte sono partite e ano deto che partirà la paga dal primo giorno che sono partito […] fami sapere qualche cosa di mio figlio se gode buona salute e li darai tanti baci e una stretta di mano, io ti saluto e prega sempre per me e stai pure allegra per me che io sto bene…”. In quei giorni il 15° Reggimento Fanteria era schierato sulla linea Rastbul-Arapar-Bazar Sciac dove svolse un’intensa attività di pattuglie offensive. Ma un mese dopo, il 23 febbraio 1916, il soldato Giovanni Fracasso venne ferito, probabilmente sotto l’attacco austro-ungarico che con forze preponderanti aveva investito le posizioni della linea Piesca-Vurgai-Sasso Bianco, costringendo la Brigata “Savona”, e quindi anche il 15° Fanteria, a ritirarsi su Durazzo. Il soldato Giovanni Fracasso, ferito, lasciò l’Albania il giorno 26 febbraio, probabilmente su quella che fu una delle ultime navi ad evacuare dall’Albania i feriti e gli ammalati italiani oltre ai prigionieri nemici catturati dai Serbi sul fronte dei Balcani. La Brigata “Savona”, sotto la pressione nemica e con le fila assottigliate dall’epidemia di colera, si asserragliò in Durazzo in attesa di completare le operazioni di imbarco conclusesi il 26 febbraio sotto il fuoco delle artiglierie nemiche. Mentre i superstiti della Brigata “Savona” sbarcarono a Valona e messi alle dipendenze della 38a Divisione, il soldato Giovanni Fracasso proseguì il viaggio verso l’Italia, probabilmente a bordo del piroscafo “Re d’Italia”, una nave ospedale con a bordo feriti, ammalati (secondo il Diario di Reparto molti soldati della “Savona” erano stati colpiti dal colera) e alcuni prigionieri, la quale dopo “cinque notti di bastimento” giunse infine sull’isola dell’Asinara,“l’isola del Diavolo”. Era il 27 febbraio 1916: a bordo della nave c’erano 390 soldati italiani, 16 marinai, 6 prigionieri austriaci e 11 soldati serbi. A dimostrazione che la traversata non fosse stata agevole, le cronache riportano che quattro soldati morirono nella traversata e furono seppelliti all’Asinara vicino alla vecchia fornace di Campo Perdu. Così, appena sbarcati, mentre i prigionieri austro-ungarici a bordo vennero avviati verso il loro campo di concentramento, costituito per lo più da tendopoli distribuite in varie località dell’isola (vi transiteranno sino alla fine della guerra oltre 23.000 uomini), il soldato Giovanni Fracasso fu ricoverato probabilmente alla Stazione Sanitaria Marittima, per curare la ferita e fare il periodo di “quarantena”. Considerate le fasi drammatiche della ritirata su Durazzo, dell’imbarco sotto il fuoco dei cannoni nemici e la lunga traversata per mare, le sue condizioni erano tutto sommato buone, come egli stesso scrisse al padre e alla moglie: “Sono stato ferito alla coscia e state pure allegri che non e niente…”.

In ricordo di quei giorni è ancora custodito dalla famiglia Fracasso, un vecchio bastone intagliato su legno di bouganville, usato da Giovanni probabilmente anche per aiutarsi a camminare con la gamba ferita, sulla cui impugnatura è inciso: “ricordo dell’Asinara”, e da lui riportato a casa durante la licenza seguita al ricovero. La permanenza sull’isola del soldato Giovanni Fracasso non dovette sicuramente essere facile anche perché il grande campo di prigionia che allora ospitava i soldati austro-ungarici era flagellato da continue epidemie di tifo e di colera, proseguite proprio sino al febbraio 1916, e che portarono alla morte di quasi 7.000 uomini. Successivamente, per le precarie condizioni esistenti sull’isola, i prigionieri austro-ungarici furono trasferiti in Francia (sull’Asinara, a Porto Torres, fu poi realizzato il monumento-ossario di quanti invece morirono sull’isola).

Il bastone del soldato Giovanni Fracasso, intagliato su legno di bouganville, con inciso “ricordo dell’Asinara”.

Il Soldato Giovanni Fracasso ricevette una lettera del 24 febbraio 1916 dal fratello Celeste che gli scrisse poiché il 20 era arrivato a casa in licenza, trovando i familiari in buona salute e gli animali tutti sani; anche qui la calligrafia è poco decifrabile ma è chiara la volontà di Celeste di dare a Giovanni soprattutto notizie del suo bambino: “… tutti in buona salute come tuo figlio i baci che mi dano pare che dica ritorni te e il mio papà, ma non pensare che forse vera quel giorno prima che laspetiamo […] abiamo speranza che il giorno non sia tanto lontano e presto trovarci tutti insieme…”. Nell’attesa di ripartire a sua volta per il fronte il successivo 7 marzo, Celeste dice che “… sarà dolorosa la partenza ma almeno contento daverli trovati tutti in buona salute, dunque ti prego di scrivermi […] senti fratelo, ti mando di mia tasca 5 lire che o avuto la fortuna di sciuparne pochi nella nostra posizione [Celeste era probabilmente militare nella Sanità presso l’Ospedale da Campo n. 221 gestito dalla 4a Compagnia di Sanità di Piacenza situato a Manzano, in provincia di Udine]. Giovanni ricevette poi una lettera del 21 agosto 1916 anche da parte del fratello Antonio il quale pareva scrivere da Schio; nell’augurarsi che la ferita di Giovanni fosse guarita, gli racconta di sé; dalla calligrafia poco leggibile pare di capire che era partito da Arzignano (un comune della pianura vicentina) restando 8 giorni sul Pasubio. La Pasqua del 1916 vide i fratelli ancora separati con Giovanni che scriveva ancora malinconicamente alla famiglia “… buone feste come se fossi a casa...” e alla moglie “… darai tanti baci al mio caro figlio […] addio, sta bene…”. Da quel 23 aprile 1916, giorno di Pasqua, non si hanno altre notizie di Giovanni sino al 17 luglio quando, guarito dalla ferita, arrivò ancora una volta in zona di guerra, assegnato al 219° Fanteria della Brigata “Sele” che tra il 31 luglio e il 1° agosto era nel settore di Velo d’Astico con il 219° Fanteria dislocato tra Poggio Curegno, Velo d’Astico e San Rocco. Il giorno seguente il Comando della Brigata “Sele” si trasferì sul Monte Caviogio (o Caviolo) retrostante il Monte Cimone sul quale arrivò di seguito lo stesso 219° Fanteria (q. 1230).

La vetta del Monte Cimone si erge su Arsiero, allo sbocco dell’Astico in pianura, prima dell’esplosione della mina (Collezione Stefano Aluisini)

Il Monte Cimone era stato espugnato dal nemico solo quattro mesi prima durante la “Strafexpedition” austro-ungarica che aveva portato gli imperiali a un soffio dallo sfondare le linee italiane nella pianura sottostante. Sopra la Val d’Astico, partiti all’attacco il 15 maggio 1916, nel settore di Tonezza, gli austro-ungarici erano infatti giunti nel giro di una settimana fin dove lo spartiacque culmina in una balconata a strapiombo su Arsiero, ovvero il Monte Cimone con i suoi oltre 1.200 metri di altezza. Se nel fondovalle l’avanzata austro-ungarica era stata arrestata facendo saltare tutti i ponti alla confluenza tra l’Astico e il Posina, con il nemico ormai a un passo da Vicenza, restava comunque nelle sue mani proprio il Monte Cimone, incuneato nella pianura. I primi tentativi di riprenderne la cima furono affidati ad alcuni pattuglioni di Finanzieri che all’alba del 2, del 4 e del 5 luglio, dopo aver scalato in silenzio le rocce della Val Valezza, con gli scarponi fasciati da stracci e le armi a tracolla, giunsero sulla cima ma vennero sopraffatti e gettati nel vuoto dagli austro-ungarici. Poi, dopo un intenso bombardamento, alle 4 e 30 del 23 luglio 1916, attaccando da un altro versante, affrontando con scale e corde un’ascesa ritenuta da molti impossibile, gli Alpini del “Val Leogra” e le compagnie 5a, 7a e 10a del 154° Fanteria della Brigata “Novara” riuscirono a occupare parte della vetta contesa trincerandosi a q. 1230, solo a poche decine di metri dagli austro-ungarici, senza però poter procedere oltre. Il compito di spazzare via le forze italiane che presidiavano la cima venne affidato al Tenente Albin Mlaker, ufficiale sloveno del Genio, che progettò una galleria tra le postazioni austro-ungariche e quelle italiane tramite la quale realizzare una mina con oltre 14.000 kg di esplosivo sotto la vetta contesa. Gli stessi italiani, sentite le continue vibrazioni dei lavori di scavo da parte del nemico, da un lato cercavano di realizzare delle gallerie di contro-mina, dall’altro tentavano ulteriori attacchi per portare avanti la linea andando oltre la cima. Visti i propri assalti infruttosi, i reparti italiani che si alternavano nelle postazioni di vetta aspettavano quindi con attesa angosciosa il momento del cambio per potersi salvare dall’esplosione ormai certa, della quale non si conosceva soltanto il giorno esatto. In questo contesto estremo arrivò a svolgere il proprio turno di prima linea sulla vetta del Cimone con il 219° Fanteria della Brigata “Sele” anche il soldato Giovanni Fracasso. Il 4 agosto 1916, dopo un’intensa preparazione di artiglieria, i Fanti della “Sele” mossero per l’ennesima volta all’attacco della q. 1217 già vanamente assaltata il 29 luglio da altri reparti ma il fuoco delle mitragliatrici e le potenti difese passive arrestarono però i Fanti che dovettero ripararsi dietro le rocce sino a che, in serata, furono costretti a ritirarsi. Tra il 10 e il 12 agosto il 219° Fanteria venne poi tenuto come riserva tra Scatolari, Barcaroli, Draghi, Bugni e Peralto, per poi scendere a riposo tra Salgarola, contrada Bosco, La Costa e S. Ulderico. I Fanti della “Novara” e della “Sele” continuarono così ad alternarsi nel presidio della vetta condannata sino a che si giunse all’inevitabile. Erano infatti le 5 e 45 del 23 settembre 1916 quando il soldato Giovanni Fracasso incontrò il suo destino, nell’istante esatto in cui sotto la vetta del Cimone, presidiata in quel momento dal I Battaglione del 219° Fanteria, gli austro-ungarici fecero detonare la mina. L’esplosione disintegrò la vetta seppellendo con essa tutti i soldati italiani che la presidiavano e tra loro le compagnie 1a, 2a e 4a del 219° Fanteria delle quali sopravvissero solo 2 ufficiali e 22 soldati.

Il cratere apertosi nella vetta del Monte Cimone con le rocce e i massi schiantati dall’esplosione, occupato da alcuni soldati austro-ungarici che hanno apprestato alcune postazioni tra le macerie (Archivio Storico Dal Molin)

La vetta sconvolta del Cimone in una foto scattata proprio dalle postazioni austro-ungariche (Archivio Storico Dal Molin)

I superstiti cercarono di contenere l’assalto delle fanterie austro-ungariche seguito alla detonazione della mina ma vennero travolti in pochi minuti. Dopo l’esplosione furono condotti vanamente due tentativi di contrattacco da parte della 3a Compagnia del 219° Fanteria, rimasta sulla quota neutra del Cimone (q. 1156), e altri quattro condotti dagli Alpini del Battaglione “Val Leogra” sotto la guida del comandante del 219° Fanteria, tutti fermati dal fuoco nemico e dal terreno sconvolto dall’esplosione, sul quale si abbattevano anche macigni e bombe a mano lanciati dal nemico. I soldati italiani dovettero desistere e ritirarsi sulle posizioni del Redentore e del Caviogio, a breve distanza da ciò che restava della vetta di Monte Cimone. Nel frattempo gli austro-ungarici, con il “Feldkurat” Padre Bruno Spiztl del 59° Rainer si adoperarono per salvare quanti più sepolti possibile tra i militari italiani.

L’ avvallamento creato dall’esplosione della mina sulla vetta del Monte Cimone, con la creazione di due “vette” ai lati del cratere

Purtroppo la proposta di tregua inviata per intensificare i soccorsi fu rifiutata dal comando italiano, deciso a cacciare gli austro-ungarici dal Cimone a ogni costo, tanto da fare aprire subito dopo il fuoco alle proprie artiglierie per tentare di cacciare gli occupanti dalla vetta. Durante gli scontri di quei giorni attorno alla cima insanguinata del Monte Cimone il 219° Reggimento Fanteria della Brigata “Sele” ebbe 36 morti accertati, 104 feriti ma soprattutto ben 651 dispersi, molti dei quali sepolti proprio dallo scoppio della mina del 23 settembre, perdite alle quali si devono aggiungere quelle relative ai militari degli altri reparti in quel momento sul Cimone, e in particolare la 130a Compagnia del Genio, che porteranno il totale delle vittime presunte dell’esplosione della mina a oltre 1.000. La vetta del Monte Cimone, costata così tante vite, sarà destinata a restare nelle mani degli austro-ungarici sino alla fine della guerra.

La targa posta sul Monte Cimone nel centenario della tumulazione del Milite Ignoto, in ricordo dei soldati uccisi dallo scoppio della mina che distrusse la vetta e i cui corpi senza nome furono sepolti sotto il monumento sulla cima distrutta

I resti anonimi della maggior parte di quei soldati uccisi dallo scoppio della mina riposano per sempre sotto il monumento la cui cuspide rappresenta la vetta spezzata del Monte Cimone, e che fu inaugurato il 28 settembre 1929 alla presenza di S.A.R. il Principe Umberto di Savoia. Tra i Caduti che riposano lassù c’è quindi anche il Soldato Giovanni Fracasso; egli non tornò più dalla sua famiglia e dal suo bambino di un anno, che portò però per sempre nel cuore il pensiero del padre scomparso trasmettendone il ricordo al nipote grazie al quale ne perpetuiamo la Memoria, anche attraverso questo contributo, al quale ci associamo emozionati.

Per aver partecipato alle campagne della Grande Guerra del 1915-16, in prima linea sul Carso, in Albania e infine sul Monte Cimone di Arsiero, al Soldato Giovanni Fracasso fu concessa la Medaglia Interalleata della Vittoria.