GUIDO ALLINEY

Guido Alliney (Rimini, 1953) è professore di Storia della Filosofia medievale all’Università di Macerata, ma nel tempo libero è un appassionato studioso della Prima Guerra Mondiale, alternando la ricerca di archivio con escursioni sul campo di battaglia. I suoi interessi sono rivolti alla guerra in montagna, in particolare sul fronte di Fassa e Fiemme e su quello dell’Alto Isonzo. Ha pubblicato alcuni saggi storici (Mrzli vrh. Una montagna in guerra, Nordpress 2000; Mrzli. La battaglia dimenticata, Gaspari 2009; Caporetto sul Mrzli. La vera storia delle Brigate perdute, Gaspari 2013), una serie di libri fotografici, tutti con Maurizio Dellantonio, l’ultimo anche con Walter Zorzi (La guerra per immagini in Fassa e Fiemme, voll. 1-5, Gaspari 2010-2105) e una guida escursionistica (Sette traversate nel Lagorai Orientale. Cauriol, Cardinal, Busa Alta, Coltorondo, Cima Cece, Colbricon, Buse dell'Oro e Cima Stradon, Gaspari 2011). Da tempo contribuisce con articoli e recensioni alle riviste Aquile in Guerra e Archeologia della Grande Guerra. Un suo articolo è stato tradotto e pubblicato sulla rivista slovena Na Fronti. È socio e referente per il Friuli-Venezia Giulia della Società Storica per la Guerra Bianca e socio del Gruppo ricerche e studi Grande Guerra della Società Alpina delle Giulie di Trieste; è collaboratore del Kobariški muzej (Museo di Caporetto, Slovenia).

LA TESTA DI PONTE DI TOLMINO - SANTA LUCIA

Cartina della Testa di Ponte di Tolmino. La collina di Santa Lucia è indicata come Selski vrh, con in evidenza la q. 588.

«Raggiunsi il mio reggimento (25° fanteria, brigata Bergamo, 7ª divisione) col grado di sergente sul monte Korada il 28 maggio 1915. Più tardi, senza colpo ferire, occupammo un’altra altura sopra il paese di Cigini e, in un fabbricato rurale, casa Cemponi, stabilimmo il comando del mio battaglione. Di fronte avevamo le alture di Santa Maria e Santa Lucia di Tolmino. La notte fra il 12 e il 13 giugno 1915 si dette il primo assalto al trincerone nemico di Santa Lucia, situato a mezza costa della stessa collina. Alle ore 23 del giorno 12 venne dato l’ordine di disfare le tende. Partimmo dall’accampamento scendendo fino a valle sulla rotabile al di là della quale era il nemico. Tutto il battaglione era in attesa di avanzare; alcuni soldati salirono sui pali del telegrafo per tagliarne i fili; si faceva un gran baccano, finché un riflettore nemico ci illuminò tutti. Credevamo che da un momento all’altro ci mitragliassero. Dopo la mezzanotte ci diedero l’ordine di avanzare. Cominciammo a salire senza ostacoli ma, appena fatto un centinaio di metri, trovammo gli Austriaci in agguato e, giunti in prossimità del reticolato, si scatenò un uragano di fucileria, bombe a mano e raffiche di mitragliatrici. Fummo costretti a buttarci a terra, ma quelli che si trovavano più avanti caddero morti o feriti. Anche un certo Muraro, toscano, che era al mio fianco fu ferito al viso; vicino a me c’era il sottotenente Cerato. I lamenti giungevano strazianti mentre il buio fitto non ci permetteva di soccorrere i feriti, anche perché non potevamo spostarci senza essere stroncati dalla mitraglia. Vivemmo quasi tre ore con la morte addosso. Prima di giorno sentimmo la voce del capitano della 10ª compagnia, Enrico Broglia di Milano, che ordinava la ritirata. Altri soldati caddero, e quando fummo al sicuro dal tiro nemico mancavano all’appello anche alcuni ufficiali e sottufficiali che erano in testa ai plotoni. Aspettammo tutta la giornata del 13 nascosti in un boschetto e a sera ritornammo al nostro accampamento dove giungemmo esausti; non avemmo la forza di fare le tende e passammo la notte sotto la pioggia. All’alba del 5 luglio 1915 altre compagnie diedero l’assalto alla stessa posizione, strisciando sui numerosi morti del precedente combattimento. Appena giunsero sotto il reticolato, furono accolti da nutrite raffiche di mitragliatrici e vennero in gran parte falciate» (1). Così, con questo assalto sanguinoso e improvvisato che le pagine di Giacinto Vaccarelli ci fanno rivivere, inizia la grande battaglia che per quasi un anno vedrà le truppe italiane aggrappate sulle falde delle due basse colline di Santa Maria e di Santa Lucia nel tentativo di occuparne la vetta. Nei dieci mesi di permanenza nel settore, la Bergamo e la Valtellina, che formavano la 7ª divisione là schierata, persero più di diecimila uomini. Alla 7ª divisione furono per certi periodi affiancati anche il 5° Bersaglieri, le brigate Messina, Benevento, Liguria e Palermo e otto battaglioni alpini, e per questo il numero totale delle perdite italiane è difficilmente quantificabile con precisione, ma sicuramente impressionante. I reparti si davano il cambio in linea passando i periodi di riposo schierati come riserve divisionali sulle alture fra Isonzo e Judrio, nei casolari e nei baraccamenti sorti nei pressi. Case Bertini, Case Cemponi, Case Dugo furono i siti degli alloggiamenti di seconda linea. Giovanni Brodini di Azzano Mella, in provincia di Brescia, non aveva ancora vent’anni quando, destinato al 1° reggimento genio, passò da Case Dugo nel dicembre del 1915 e le ricordò così: «Arrivati a Case Dugo, bagnati come pulcini e sporchi di fanga, siamo andati a dormire su un fienile. Quando ci siamo svegliati la mattina avevamo addosso dei camàndoi (pidocchi) che sembravano bachi da seta, grossi come un dito: ce li avevano lasciati quelli della fanteria, pensarci dietro a quei bei vestiti che avevamo indosso, la madonna, tutti pieni di porcheria… Siamo stati lì due giorni e la prima mattina (bellissima e lustra, che eravamo in montagna) abbiamo bollito nelle latte i nostri panni e poi abbiamo scavato le trincee. Subito dopo ci hanno mandato su a Santa Lucia e Santa Maria, dove passa l’Isonzo, per preparare i trinceramenti, perché gli austriaci volevano superare il fiume e venire di qua…" (2). 

Veduta di Santa Lucia in una stampa della Sezione Informazioni del Regio Esercito Italiano. Sono tracciate le linee austriache.

Veduta di Santa Lucia in una stampa della Sezione Informazioni del Regio Esercito Italiano. Sono tracciate le linee austriache.

In realtà gli austriaci oltre l’Isonzo c’erano già dall’inizio della guerra, ed erano gli italiani che volevano varcare il fiume per conquistare la piana di Tolmin (Tolmino). L’intento strategico dei comandi italiani era comprensibile: la testa di ponte di Tolmino era una spina nel fianco dello schieramento italiano e la sua mancata conquista si dimostrò fatale il 24 ottobre 1917, quando Tolmino fu la base da cui partì la grande offensiva austro-tedesca che costrinse gli italiani a ritirarsi fino al Piave. Le scelte tattiche furono invece disastrose. Come sempre nel primo anno di guerra, la fanteria italiana attaccava le linee avversarie senza un’adeguata preparazione di artiglieria e, mancando le bombarde, i reticolati restavano intatti; le compagnie di linea, inoltre, avevano una scarsa potenza di fuoco, poiché erano ancora prive di pistole mitragliatrici e lanciaspezzoni Bettica e solo debolmente sostenute dalle poche mitragliatrici reggimentali. Per questi motivi, oltre che per una certa spensieratezza dei comandi, che sembravano non tener in alcun conto le esperienze accumulate sui campi di battaglia europei nel primo anno di guerra, gli attacchi della fanteria venivano spesso pagati con perdite altissime.

L’estate.

Dopo la sfortunata ricognizione del giugno 1915, i soldati della Bergamo, ala destra della 7a divisione schierata fra Tolmino e Selo, assumono un atteggiamento più cauto, limitandosi a scavare trincee sulla destra del rio Ušnik, in attesa dell’ordine di riprendere le operazioni. A meno di un breve ma sanguinoso assalto all’alba del 5 luglio, quando al prezzo di 180 uomini viene tentata una temeraria avanzata verso il ponte di Most na Soči (Santa Lucia), il settore rimane tranquillo fino ad agosto, quando infine giunge l’ordine di operazione che assegna alla Bergamo la conquista del colle di Santa Lucia. In base alle disposizioni ricevute, il 16 agosto la Bergamo assume nuovamente l’iniziativa nel settore e avanza con i suoi due reggimenti, il 25° a sinistra e il 26° a destra, verso la scura mole del monte che domina la stretta valle. All’alba ha inizio lo schieramento dei battaglioni di punta, il I/25° e il IV/26°, nelle trincee di fondo valle Ušnik mentre numerose pattuglie escono dalle linee per aprire varchi nei reticolati con i tubi di gelatina. L’artiglieria prepara lungamente l’azione, poi alle 14 le fanterie lasciano le trincee, attraversano la strada per Tolmino e si avvicinano alle pendici del colle, rigate dalle trincee e punteggiate dalle esplosioni. Il fuoco austriaco apre subito ampi vuoti nelle fila delle compagnie di punta, la 1a e la 3a del 25°. Cadono il capitano Giovanni Coelli, comandante della 1a compagnia, e il tenente Pasquale Buttari, comandante della 3a, ma ciò nonostante le trincee austriache, incise sopra i roccioni che chiudono i prati oltre al ruscello, sono velocemente conquistate: come in una manovra in piazza d’armi, i soldati che la presidiano si arrendono e quasi inaspettatamente il successo arride agli attaccanti. Mezz’ora più tardi anche le altre due compagnie del battaglione raggiungono le linee occupate, mentre il III battaglione si sposta in fondovalle come rincalzo. Nel pomeriggio il reggimento amplia l’occupazione del versante occidentale di Santa Lucia, raccogliendo materiali e militari sbandati: a fine giornata i prigionieri catturati sono 200, con due mitragliatrici, un telefono, un riflettore, un lanciabombe, fucili e munizioni in quantità. Anche il reggimento gemello riesce a sfondare le linee imperiali, prende numerosi prigionieri e avanza con la 13a e la 16a compagnia fino a spingere pattuglie sul costone sopra Selo. A sera si ferma nel bosco, a 200 metri dalla sommità del colle, il Selski vrh, che con la sua quota 588 diverrà presto tristemente nota fra i soldati del settore. È il più grande successo italiano nell’alto Isonzo, e il generale Pietro Frugoni, comandante della 2a armata, spera di poterlo ampliare e rendere così l’affermazione tattica una vittoria strategica: basterebbe completare l’avanzata conquistando la q. 588 e il costone che da essa digrada verso il paese di Selo, obiettivi che paiono oramai prossimi, con gli imperiali che hanno subito perdite rilevanti e in crisi di schieramento, costretti a disporsi su linee improvvisate e spesso stabilite dal limite dell’avanzata italiana. Il giorno dopo, però, la resistenza austriaca si irrigidisce e gli attacchi del 25° fanteria ai roccioni che, sulla sinistra del reparto, affiorano dal fango del monte in una spina di pietra che sale da Ušnik alla vetta sono fermati con gravi perdite dal fuoco delle mitragliatrici appostate nella notte. Al centro l’avanzata è meno contrastata, e sotto un furioso temporale gli italiani si portano alla stessa quota del 26°, 80 metri di dislivello e 200 metri di costone dalla vetta, dove occupano una trincea blindata austriaca e lì si fermano, resistendo ai contrattacchi notturni dei difensori. A destra del 25°, il 26° termina di rastrellare le linee imperiali, catturando 60 austriaci che, con un ufficiale e un cadetto, sono rimasti a presidiare il proprio settore. Quando però i fanti cercano di ampliare l’occupazione della cresta sopra Selo, raggiunta già il giorno prima, sono subito attaccati dai difensori, che catturano il plotone di testa dell’8a compagnia. Il contrattacco alla baionetta ricaccia gli imperiali, che lasciano a loro volta trenta prigionieri nelle mani nemiche, e l’occupazione del ciglione è consolidata per una cinquantina di metri. Il reggimento non riesce però a procedere oltre: la difesa imperiale si è rafforzata e il momento opportuno per sfondare è forse sfumato proprio in quelle ore. A sera i comandi italiani fanno i primi bilanci, certo positivi: si è avanzato di diverse centinaia di metri, su un terreno difficile e scivoloso per il fango intriso di pioggia, fino a giungere a ridosso della cima del colle, e si è così impedito agli austriaci di mettere in atto la difesa elastica che diverrà poi la tattica abituale a Santa Maria e sul fronte carsico; la conta dei prigionieri è arrivata a 700, con molto materiale. Le perdite del secondo giorno di battaglia sono state superiori a quelle del primo, ma relativamente contenute: fra il 16 e il 17 agosto 250 uomini per il 25° fanteria, probabilmente altrettanti per il 26°. Tuttavia, le prospettive non sembrano più così rosee: gli imperiali hanno avuto il tempo di far accorrere le riserve e hanno occupato i punti chiave del monte, da dove sono riusciti a fermare i reparti italiani quando hanno cercato di avanzare, costringendoli a scavare velocemente ripari provvisori con vanghette e picconi.

Targa a ricordo di una batteria di obici imperiali schierati sul Cvetje (Santa Lucia) il 20 agosto 1915.

Il fronte si è momentaneamente stabilizzato, formando un grande triangolo con vertice a quota 588, base a Selo a sud e al bivio della strada per Kozaršče a ovest. È quasi una U rovesciata: partendo dalle pendici del monte, la linea austriaca ne risale il versante occidentale lungo la cresta rocciosa che lo segna dalla base alla vetta, poi piega a sud seguendo la cresta da q. 588 a q. 510 e oltre, digradando verso Selo, per poi piegare nuovamente verso occidente lungo le balze erbose che attorniano il borgo di Selo, distrutto dall’artiglieria italiana. La vittoria pare però ancora a portata di mano e il comando di divisione ordina di continuare l’azione il giorno successivo, sperando di ottenere un’avanzata risolutiva verso il paese di Most na Soči (Santa Lucia). All’alba del terzo giorno di battaglia i comandanti italiani tengono i binocoli puntato sul colle per seguire l’esito, forse decisivo, dello scontro oramai prossimo. Il 18 agosto il 25° fanteria attacca nuovamente la rupe sulla sinistra, che ha già assunto il nome di guerra di ‘Roccione misterioso’, senza riuscire ad avanzare, fermato ancora dalle mitragliatrici e dai massi che gli austriaci fanno rotolare sugli assalitori. Il reggimento perde altri 125 uomini, fra i quali il capitano Riccardo Curti, comandante del I battaglione, che cade ucciso. Anche il 26° tenta invano di raggiungere le trincee austriache sulla cresta sommitale, spingendo in avanti la 13a e la 14a compagnia al comando del tenente Enrico Trombetti. I soldati sono provati dai due giorni di combattimenti senza approvvigionamenti e cercano di evitare lo scontro. Come riporta il Diario del Reggimento, le compagne escono per tre volte all’attacco ma la truppa «fatto un solo balzo, appena sentiva il furioso sibilar delle pallottole esplodenti e delle mitragliatrici, si portava ancora indietro lasciando avanti i soli ufficiali" (3). 

Bersaglieri caduti prigionieri a Santa Lucia durante la terza battaglia dell’Isonzo.

Abbiamo una conferma di questo comportamento nelle memorie di un ufficiale caduto prigioniero nell’azione, il sottotenente Italo Salterio che comanda il IV plotone della 14a compagnia. Salterio ricorda che alle 14 il suo plotone inizia ad avanzare verso le linee imperiali, ma viene presto fermato dal fuoco di una mitragliatrice austriaca. Salterio chiede ordini al tenente Trombetti che gli comanda di proseguire l’azione. «Ordinai allora l’assalto seguito dai miei uomini; ma accolti subito dopo dal fuoco di altra mitragliatrice rimasta fino allora celata, e da quello di fucileria, il reparto subì perdite gravi; ed il nemico, sfruttando questa sua subentrata superiorità di numero, contrassalì alla baionetta. Precedendo il reparto fui subito sopraffatto da parecchi austriaci" (4). Salterio ha salva la vita per l’intervento di un sottufficiale austriaco che placa i suoi uomini; non vede nulla di ciò che accade al suo plotone, restato indietro, ma in prigionia verrà poi a sapere che diversi soldati erano stati uccisi e una quindicina catturati. Visto il fuoco delle mitragliatrici che impedisce di procedere, il tenente Trombetti cerca di richiamare indietro le compagnie, ma cade egli stesso colpito a morte. La sua salma, come quella di tanti altri combattenti di Santa Lucia, non sarà mai recuperata. Enrico Trombetti, di famiglia modesta, era nato a Bologna il 30 luglio 1879. Socio della società sportiva Virtus, si era poi arruolato come allievo sergente e aveva partecipato alla guerra di Libia con il 7° fanteria. Era stato poi trasferito come tenente al 26° fanteria. Per il coraggio dimostrato nella sua ultima azione fu decorato con la medaglia d’argento (5). Il terzo giorno di battaglia si conclude così con un nulla di fatto che va a tutto vantaggio degli imperiali, che hanno arrestato l’avanzata italiana e guadagnato ore preziose per meglio organizzare la difesa. I comandi italiani, pur continuando a sperare di poter conseguire un successo decisivo, si rendono conto che i reggimenti della Bergamo, logorati dagli scontri, hanno perso molta della loro efficienza. Ordinano perciò di sospendere le operazioni in attesa di nuovi reparti freschi, capaci di dare nuovo impulso alla battaglia. Sono in tutta fretta inviati nel settore il 5° bersaglieri (XIV e XXII battaglione, schierati precedentemente sulla destra Isonzo davanti a Tolmino) e diversi battaglioni alpini (Val Dora, Val Pellice, Intra, Val d’Orco, Val Baltea) che all’alba del 20 agosto si spostano a Santa Lucia.

Santa Lucia, 1915: fra le linee.

Intanto, in una corsa contro il tempo, anche gli imperiali rinforzano le fanterie, inserendo una nuova brigata da montagna, la 58a, sulla testa di ponte di Tolmino, e schierano altre batterie di obici sulla cresta settentrionale del colle. I nuovi pezzi subito colpiscono il comando della Bergamo, ferendo il colonnello brigadiere Nicola Cartella, e il comando del 26° fanteria, ferendo il tenente colonnello Giacomo Manfredi. Anche i comandi pagano dunque il prezzo dell’offensiva: il 17 agosto sono già stati feriti da una granata il tenente colonnello De Simone, comandante del 25° fanteria, e il suo aiutante maggiore in prima, capitano Goffredo Mameli, mentre il 18 agosto il tenente colonnello Carmine Amendola è caduto alla testa del suo reggimento, il 158° fanteria della brigata Liguria che tiene il settore destro di Doblar, collegando la 7a divisione con l’ala sinistra della vicina 32a. Il comandante dei 5° bersaglieri, colonnello Eugenio De Maria, appena insediato con il suo reggimento sui costoni di Santa Lucia, ha modo di osservare gli infangati battaglioni della Bergamo e commenta sul Diario del reggimento che «i reparti del 26° fanteria sono in condizioni morali ed organiche assai scosse, da consigliare e chiedere la sostituzione» (6). In base agli ordini del comando della 7a divisione, in cui il reggimento è inquadrato, già il 21 agosto De Maria lancia attacchi dimostrativi con il XIV battaglione, senza tuttavia ottenere alcun risultato. Al prezzo di 64 bersaglieri, 39 fanti e 1 alpino l’azione è rinviata al giorno successivo. Il 22 agosto viene dato l’ordine di riprendere le operazioni cercando un successo risolutivo; l’artiglieria italiana inizia già all’alba a battere la cresta di quota 588 e continua per ore, fino a quando, alle 15, scattano le fanterie.

Reparto di mitraglieri imperiali in Alto Isonzo.

Esce dalle linee la 1a compagnia del tenente Giovagnoli, preceduta da un plotone con sacchi a terra con il compito di allargare i varchi. Come già avevano fatto i fanti della Bergamo i giorni precedenti, i bersaglieri avanzano cautamente sul costone fangoso, tanto ripido che si stenta a procedere, ma subito gli ufficiali si levano diritti e si lanciano all’assalto, seguiti dai fanti piumati. I reticolati però sono intatti e le mitragliatrici austriache in perfetta efficienza: come scrive De Maria nel Diario del reparto, «per le gravi perdite subite in pochi istanti la compagnia è costretta ad arrestarsi gettandosi a terra presso i reticolati" (7). Viene allora fatta avanzare la 2a compagnia, che è falciata come la prima «dal fuoco micidiale di fucileria e delle mitragliatrici come da quello dell’artiglieria. Le due compagnie non riescono a superare l’ostacolo costituito dalle difese accessorie e le perdite sono gravissime" (8). I bersaglieri superstiti sono schiacciati a terra, immobilizzati dal fuoco radente degli imperiali.

Il difficile terreno su cui si svolse l’attacco dei bersaglieri il 22 agosto 1915.

I reparti sono privi di mezzi efficaci per aprire varchi nei profondi reticolati nemici, dato che le poche pinze tranciafili a loro disposizione sono quelle prestate dal 26° fanteria, che qualche giorno dopo le reclamerà indietro per poter proseguire un attacco bloccato dai reticolati (9). La strage della 1a e 2a compagnia non frena l’ardore del colonnello De Maria, che comanda anche alla 3a compagnia di uscire dalle linee «per dare l’assalto con tutto il battaglione a q. 588», ma gli obici imperiali hanno inquadrato la zona del combattimento e «un violento fuoco di artiglieria a granate si abbatte su detto reparto menomandone a causa delle forti e repentine perdite l’efficienza» (10). Il battaglione ha perduto quasi tutti gli ufficiali e più della metà della truppa schierata, e De Maria dà infine l’ordine di sospendere l’azione. Il prezzo per questo attacco è altissimo: 3 ufficiali morti e 10 feriti, 43 bersaglieri morti, 280 feriti e 53 dispersi (quasi tutti caduti non recuperati): 389 uomini perduti in due ore di battaglia. Sul colle insanguinato cala infine la sera, quando un violento temporale ne flagella a lungo i costoni, ostacolando il recupero dei feriti e dei morti. 

Il tenente dei bersaglieri Guido Giovagnoli caduto a Santa Lucia il 22 agosto 1915.

Gli ufficiali caduti sono il sottotenente Gianmichele Corinto di Dogliola, il cui corpo è recuperato e ricomposto nelle linee italiane, il tenente Guido Giovagnoli e il sottotenente Salvatore Fossati, le cui spoglie rimangono disperse nel tormentato terreno fra le opposte trincee. Poco sappiamo di Gianmichele Corinto, di Dogliola in provincia di Chieti, nato il 18 febbraio 1892. Salvatore Fossati aveva appena compiuto vent’anni: era nato a Cipressa, vicino a Sanremo, il 26 febbraio 1895. Ebbe, postuma, una medaglia d’argento. Era figlio di due insegnanti, Bartolomeo Fossati e Corinna Villanti. La sua foto apparve, con la notizia della morte, sul Secolo XIX del 17 settembre e sulla Domenica Illustrata del 10 ottobre 1915: un viso minuto, reso più austero da due brevi baffetti scuri, è quello che resta della sua vita sulla carta ingiallita della rivista. Guido Giovagnoli apparteneva anch’egli a quella piccola borghesia che ebbe tanti lutti fra gli ufficiali subalterni della Grande Guerra: figlio di un impiegato e di una casalinga di Foiano della Chiana (Arezzo), era nato il 19 gennaio 1887. Ufficiale di carriera, è ritratto in una foto di studio scattata a Jesi, il viso rotondo ornato da baffi a manubrio, orgoglioso dell’alta uniforme e del cappello piumato; anch’egli fu decorato da medaglia d’argento. Quello dei bersaglieri è il più sanguinoso assalto a quota 588. La decisione di De Maria di far avanzare a dense ondate le compagnie senza aver prima aperto varchi nei profondi reticolati austriaci ne rende l’esito probabilmente inevitabile. Il corpo dei bersaglieri, fiero delle proprie caratteristiche e della propria tradizione, nella Grande Guerra paga a caro prezzo un impiego non coerente con la natura stessa della specialità, creata come fanteria leggera mobile per operazioni ardite e limitate.

La selletta sotto quota 588, che si intravede sullo sfondo, dalle posizioni raggiunte dagli alpini del Val Dora il 28 agosto 1915.

Le gravissime perdite subite nei primi giorni di guerra sul Mrzli e, poi, nella conca di Plezzo e a Santa Lucia, ma anche sul fronte del basso Isonzo fanno sì che i bersaglieri «imparassero la musica» e, per un ordine del comando supremo, «mettessero le piume nello zaino», per citare Carlo Salsa, adottando anch’essi il cappello della fanteria, tanto che «per capire che sono bersaglieri bisogna andarci sotto a guardare le mostrine» (11). In altre parole, l’omologazione dei bersaglieri alla fanteria di linea ne riduce le specificità; non ne modifica tuttavia i comportamenti, dettati dall’addestramento e dalla tradizione del corpo, stabilita dai valori ottocenteschi. Nel suo volume di memorie scritte nel dopoguerra Tullio Torriani, già ufficiale dei bersaglieri, ne rafforzerà l’immagine con una serie di scenette di eroismo scherzoso e irriverente. Una di queste è proprio ambientata nel settore di Santa Lucia: «Dopo un’azione piuttosto vivace a S. Lucia di Tolmino, il nemico, individuato il Comando della Brigata (Bergamo) posto a Casa Cemponi, prese a bombardarlo furiosamente: in breve, la fatiscente casupola venne ridotta in polvere: l’attendente morì, l’ufficiale di ordinanza rimase gravemente ferito; il Generale Maggiotto (che era un bersagliere, n.d.a.), unico illeso, saltò fuori dalle macerie e, imboccato l’inseparabile megafono, gridò ai suoi: ‘Non è niente, il vostro Comandante è invulnerabile e, come sentite, se la canta la Bella Gigo-Gì’" (12). 

Quota 588 e la selletta sottostante. Si vede il muro di sacchetti a terra eretto dagli alpini del Val Dora il 28 agosto 1915.

L’assalto a quota 588 entrerà presto nella mitologia del corpo come una pagina di gloria: il 9 ottobre il comando di divisione invia alla 1a compagnia del XIV battaglione un binocolo Zeiss come dono «per la splendida condotta e l’impareggiabile dimostrazione di valore data nel combattimento del 22 agosto sulla collina di santa Lucia» (13), e l’azione è spesso citata fra le imprese eroiche della specialità. La fama, però, ne trasfigurerà a poco a poco il ricordo: la storia del bersaglieri di Antonio Sema ricostruisce così l’operazione: «L’attacco riprese il 22, attorno alle 18,30. L’ala sinistra fu nuovamente colpita e immobilizzata, con gravi perdite: ne approfittò il centro che spinse i bersaglieri su q. 588, poi gli attaccanti vennero centrati dall’artiglieria I.R. che sfruttò al meglio il suo eccellente controllo del tiro […] così intenso e preciso da impedire l’afflusso di qualsiasi rinforzo. A sera i bersaglieri ripiegarono dopo avere perso almeno 400 uomini" (14). Si tratta di una descrizione per molti aspetti imprecisa, ma è soprattutto l’affermazione per cui i bersaglieri avrebbero occupato la cima del monte ad essere priva di fondamento, dato che i fanti piumati, inchiodati dalle mitragliatrici imperiali nel terreno fra le linee, non riuscirono mai a superare i reticolati austriaci. Ancor più fantasioso è il resoconto di Orio di Brazzano, che si immagina uno scontro alla baionetta sulla quota 588: «Ci fu un momento in cui il XIV bersaglieri […] riusciva a raggiungere la vetta del Santa Lucia ma, contrattaccati dal IV battaglione del 37° fanteria ed in carenza di rincalzi, i bersaglieri dovevano dar partita vinta ai fanti austriaci» (15). Dopo le azioni del 21 e 22 agosto, anche De Maria si fa convinto che attacchi in campo aperto sono destinati a un cruento fallimento e sul Diario del reggimento nota che «la trincea di partenza sotto q. 588 è solo buche, va completata. Il terreno oltre è scoperto. Necessario costruire parallele ad avanzamento spezzato" (16). 

Fotografia aerea delle linee del costone dal paese di Selo, in alto a sinistra, fino a quota 588, a destra.

Non sono dello stesso avviso i comandi superiori, che decidono di prolungare le operazioni. I giorni successivi continuano le azioni di pattuglia per far brillare tubi di gelatina sotto i reticolati austriaci e i lavori di scavo di camminamenti ortogonali alle linee per avvicinarsi alle trincee imperiali per ridurre il terreno scoperto da superare nell’assalto (parallele per l’attacco metodico). Il tempo per eseguire questi lavori campali è però decisamente breve: una nuova azione viene ordinata già per il 28 agosto. Il piano dell’operazione, simile a quello dei giorni precedenti e dei successivi, prevede di attaccare lungo tutta la linea della brigata. A sinistra, il 25° fanteria deve compiere un attacco dimostrativo verso nord, contro la linea che sale ripidissima dal rio Ušnik a quota 588; a destra, il 26° fanteria attaccherà, con compiti risolutivi, il costone di Selo da quota 510 al paese di Selo, tentando di allargare il breve tratto di cresta occupato nelle operazioni precedenti. Al centro, contro quota 588 e la selletta fra la quota e la vicina quota 510, si dovrà esercitata la pressione maggiore. Una colonna mista di fanti, bersaglieri e alpini dovrà conquistare la vetta del monte e dilagare alle spalle delle linee imperiali, facendole crollare per aggiramento. Come è oramai consuetudine, l’attacco si svilupperà il pomeriggio, dopo un lungo fuoco di artiglieria sulla cresta e le retrovie imperiali.

Rovine del paese di Selo dopo la battaglia.

I bombardamenti italiani hanno effetti diversi, ma mai determinanti: i diari dei reparti a volte riportano che «quasi tutti i colpi sono corti per cui si interrano avanti ai reticolati a poca distanza dalle posizioni» (17), altre che «alcuni tratti della trincea nemica sono sconvolti dal tiro preciso dei nostri cannoni (18), ma debbono in generale riconoscere che «il nemico dopo un violento e preciso tiro d’artiglieria non si mostra mai scosso» (19). Il colonnello De Maria, comandante del settore, ha disposto in prima schiera la 9a e 11a compagnia del III/65° della Valtellina, arrivato il giorno prima di rinforzo, mentre il XXII battaglione bersaglieri e il battaglione alpino Val Dora sono schierati subito dietro di rincalzo. I fanti tentano più volte di avanzare sul terreno ripido e sconnesso ma il violento fuoco delle mitragliatrici imperiali li ferma sempre a pochi passi dalle linee; De Maria ordina allora agli alpini di superare i fanti e procedere all’attacco. Come riporta il Diario del 5° bersaglieri, in cui era inquadrato il Val Dora, «Verso le 16 era iniziato l’attacco con una compagnia e mezza del battaglione Val Dora in prima linea (tutta la 232a e due plotoni della 231a). Le truppe dovettero tardare a pronunciare l’attacco perché le trincee di partenza erano ancora occupate dal 65° che non era progredito nell’avanzata e quindi dovettero sfilare per uno con grande perdita di tempo" (20). 

Gli alpini avanzano protetti dal terreno fin sotto le linee austriache, come ricorda il capitano Carlo Vigo, comandante interinale della 232a compagnia al posto del capitano Carlo Bottiglia che è passato a comandare il battaglione: «Per le condizioni del terreno e per restare celati alla vista del nemico si dové approfittare d’un filare d’alberi e marciare per uno stretto passaggio. Così si giunse allo scoperto soltanto in prossimità della cresta guarnita di trincee austriache i cui reticolati già erano profondamente danneggiati dalla nostra artiglieria" (21). Raccolti gli uomini che sono ancora in fila indiana, continua Vigo, «alla loro testa assecondato nel movimento dalla 231a compagnia di corsa feci impeto sulle opere nemiche. Al nostro improvviso irrompere gli austriaci, dopo breve resistenza, sgombrarono i loro ripari che immediatamente vennero occupati dai miei soldati" (22). Con Vigo vi è tutta la 231a compagnia ma solamente alcuni dei plotoni della 232a perché il fuoco delle mitragliatrici imperiali ha impedito a quelli di coda di procedere con il resto del battaglione. La risalita del costone erto e battuto apre ampi vuoti nella schiera che avanza: cade fra le linee il tenente Antonio Moretto, nato a Torino il 20 agosto 1882, colpito da una palla in fronte, e con lui cade anche il tenente Angelo Canavesio, figlio di Luigia Leardi e di Cesare Canavesio, industriale di Torino, dove è nato il 28 gennaio 1882, ambedue insigniti della medaglia d’argento alla memoria, e tanti alpini, come Giobatta Gasparini, nato a Piovene Rocchette il 29 maggio 1888. Quando i plotoni del Val Dora raggiungono infine la trincea avanzata, racconta Vigo, «gli austriaci dopo breve resistenza sgombrarono i loro ripari che immediatamente vennero occupati dai miei soldati e dalla 231a compagnia" (23). Alle 18 la trincea di prima linea è conquistata e diversi militari imperiali e due mitragliatrici sono stati catturati. Gli alpini si fortificano sulla posizione, dalla quale vedono la mulattiera che porta a valle, erigendo un riparo con i sacchi a terra, poi si dispongono a un’ulteriore avanzata, ma quando Vigo con i suoi uomini lascia l’improvvisato trinceramento, subito – racconta – «fui accolto da viva fucileria ed io stesso ebbi il ginocchio perforato da una pallottola di fucile» (24). Le perdite divengono elevate e, poiché sono già caduti «mortalmente feriti i tenenti Canavesio sig. Angelo e Moretto sig. Antonio (soli ufficiali che mi avessero accompagnato) – prosegue il memoriale di Vigo – dovetti raccogliere i soldati e provvedere per ridurre al silenzio alcune mitragliatrici che gli austriaci, contrattaccando alle mie ali, avevano messo in funzione […]. Facendosi sommamente intenso il fuoco dai camminamenti nemici, che vedevo popolarsi d’austriaci» (25). Vigo stesso si mette a sparare con il moschetto. «Ferito una seconda volta alla spalla sinistra e dopo anche alla mano destra […] sollecitai d’urgenza rinforzi» (26). Ricevuta la richiesta, il colonnello De Maria ordina ai rincalzi di avanzare in aiuto degli alpini, ma la 232a compagnia che cerca di raggiungere il resto del battaglione, «accolta da un violentissimo fuoco di mitragliatrici proveniente dal fianco destro, dovette arrestarsi e dietro questa anche la compagnia bersaglieri che essendo a rincalzo di quella non aveva mezzo di spiegare la sua azione per la ristrettezza dello spazio. Il comandante del battaglione alpini vista l’impossibilità di avanzare da quel lato […] si portò a sinistra per avere l’appoggio del 65° fanteria. Dopo alcuni sforzi riuscì a trascinare avanti questi reparti ma era troppo tardi perché intanto il nemico, vista l’esiguità di forza che si trovava in trincea che aveva perduto, contrattaccò riuscendo a prendere la trincea. I rinforzi a 70-80 metri dalla linea che si riteneva ancora in possesso dei nostri, sono accolti da un violentissimo fuoco" (27). La situazione degli alpini del Val Dora è intanto diventata sempre più critica. Vigo ricorda che «il sergente Quaglino della 232a ridusse al silenzio una mitragliatrice austriaca a sinistra, io disposi gli uomini per ottenere lo stesso risultato con altra mitragliatrice sulla destra. Per la terza volta mandai a domandare soccorsi, poi fui ferito da una quarta palla alla tempia destra e caddi privo di sensi al suolo" (28). Alle sette di sera i pochi alpini rimasti sono sopraffatti dai rinforzi che gli imperiali hanno inviato nel settore; nell’ultimo scontro cade ucciso Pietro Gribaudo della 231a compagnia, trentaduenne di Torino, dove lascia vedova Pierina Cerutti, e resta ferito Giovanni Morandi della 232a, che si è distinto durante tutta l’azione. Il capitano Vigo rinviene nelle linee austriache, dove lo hanno trasportato sei alpini, gli unici superstiti che egli vede. Del battaglione quel giorno restano solo 258 uomini. Gli alpini del Val Dora sono i primi soldati italiani a raggiungere le trincee di quota 588, ma il loro sacrificio è inutile perché, non alimentata, l’azione si esaurisce da sola. Il giorno successivo l’attacco riprende con le stesse modalità; ancora una volta, però, il terreno ripido e scoperto, battuto dall’artiglieria e dalle mitragliatrici, impedisce qualunque successo: dopo quattro ore di combattimento solamente «alcuni bersaglieri carponi era giunti ai reticolati» (29), ma devono presto sgombrare. Nell’azione cade il sottotenente dei bersaglieri Rodolfo De Mori, medaglia d’argento perché «Durante la marcia di avvicinamento, sotto l’intenso fuoco dell’artiglieria e delle mitragliatrici nemiche, noncurante del pericolo, si adoperava, con mirabile attività ed energia, perché l’avanzata del proprio plotone e di quello che precedeva, comandata da un graduato di truppa, avvenisse celermente, come richiedeva la situazione, ed aveva già raggiunto l’intento quando cadde colpito a morte». Mori, nato a Roma il 1° giugno 1892, era un noto podista della Società Sportiva Lazio che aveva vinto importanti gare di livello nazionale, stabilendo anche il record nazionale sugli 800 metri piani. La notizia della sua morte viene riportata sul quotidiano Progresso Italo Americano del 15 novembre 1915, che nella rubrica ‘I nostri Eroi caduti’ ne pubblica una bella foto in ovale. Nelle azioni del 28-29 agosto solo i bersaglieri perdono 7 ufficiali e 207 militari di truppa. I giorni successivi le operazioni diminuiscono di intensità senza tuttavia avere requie: la vicinanza delle trincee e la svantaggiosa posizione delle linee induce gli italiani a continuare le incursioni delle pattuglie, limitate ma sempre sanguinose. Il 12 settembre il generale Franzini ordina alle truppe della sua divisione di riprendere le azioni. Vengono impiegati, oltre ai già logori battaglioni della Bergamo e del 5° bersaglieri, il 158° fanteria della Liguria, che attacca da Podselo, a meridione, e tre battaglioni alpini (Val d’Orco, Intra e Val Baltea). Gli assalti dei bersaglieri e dei fanti portano soltanto a rilevanti perdite perché, ancora una volta, i reticolati restano intatti. L’attacco del 12 settembre lo ricorda bene Valentino Coda, ufficiale della Liguria: alle 11,30, sospeso il fuoco dell’artiglieria, «il drappello guidato al tenente Triveri (circa 40 soldati del Genio e di Fanteria incaricati di far saltare il reticolato con tubi di gelatina) arriva sotto i reticolati e si accinge all’opera, ma in pochi istanti la maggior parte degli audaci guastatori è messa fuori di combattimento; i tubi carichi di esplosivo giacciono sul terreno insieme con gli uomini che li portavano» (30). Perciò, quando «le squadre di fanteria escono dai camminamenti ed a sbalzi successivi si portano sotto le trincee nemiche, si trovano davanti un vero e proprio muro che vomita fuoco da cento feritoie, inattaccabile dietro i reticolati intatti» (31), e quando la seconda ondata segue la prima, l’artiglieria imperiale ha inquadrato la zona di irruzione: «il terreno adesso ribolle di granate" (32) e in pochi minuti il reggimento perde 200 uomini con molti ufficiali; restano uccisi i tenenti Aldo Cinti di Milano e Giuseppe Molaschi di Rivergaro, in provincia di Piacenza. Più fortuna ha la colonna degli alpini che, ricalcando le orme del Val Dora, attacca la cresta di Santa Lucia fra quota 588 e quota 510: di nuovo i plotoni alpini, questa volta del Val Baltea, riescono a occupare un elemento della trincea austriaca. Ancora una volta, però, il contrattacco degli imperiali ricaccia gli alpini decimati, che non riescono a mantenersi sulle posizioni conquistate. L’azione, sviluppatasi secondo le modalità oramai ripetitive degli assalti italiani, costa ai battaglioni alpini circa trecento uomini (33). Di questo attacco ci è giunta una descrizione da una prospettiva per noi inusuale, quella di chi le trincee le difendeva. Il 12 settembre, a contrastare gli alpini su quota 588 sono schierati i Kaiserjäger del I battaglione del 1° reggimento che, a riposo nella valle del Vipacco, il 18 agosto era stato inquadrato con il 2° reggimento Kaiserjäger nella 58a brigata da montagna e inviato in tutta fretta a difesa della testa di ponte di Tolmino. Nella storia dei Kaiserjäger curata da Ernst Wisshaupt è riportata la testimonianza di uno dei protagonisti della battaglia, il tenente Rudolf Blaas: «Il 12 settembre, alle 7 del mattino, iniziava un intenso fuoco d’artiglieria che presto divenne tambureggiante. Le trincee di prima linea erano ormai ridotte a crateri di granate. Il presidio si riparava alla meglio nei camminamenti retrostanti alla prima linea. Nelle postazioni avanzate crivellate di colpi ogni plotone doveva lasciare sei uomini, sostituiti a brevi intervalli, per segnalare in tempo l’avanzata della fanteria. Raramente qualcuno non tornava ferito o fuori di senno da quell’inferno. […] Alle 11 del mattino iniziava, con grande impeto, l’attacco della fanteria nemica. Esso si diresse principalmente verso il settore tenuto dalla 1a compagnia, dove gli italiani – alpini, bersaglieri e fanteria – riuscirono a sfondare. La 1a e la 2a compagnia si lanciarono con veemenza contro il nemico che venne respinto dopo violenti scontri alla baionetta. Gli italiani si ritirarono a non più di un tiro di sasso e iniziarono un intenso fuoco di fucileria. Si potevano udire gli incitamenti degli ufficiali italiani: ‘Avanti, Savoia! Evviva il Re!’. Venne ripetutamente suonato l’attacco mentre la truppa veniva spinta, con energici richiami, ad andare di nuovo all’assalto. Infatti alle 12,30 gli italiani avanzarono ancora e si fermarono a soli venti passi dalla linea dei Kaiserjäger. I nemici furono però presto costretti ad abbandonare la nuova linea, soprattutto per l’efficace azione della sezione mitragliatrici del II battaglione del tenente Wodička che, nonostante la pioggia di granate che aveva distrutto alcune delle mitragliatrici e messo fuori combattimento molti serventi, era rimasta senza paura in una posizione avanzata da cui controllava l’intero fianco della collina" (34). 

Il capitano Johann Iskrić con gli ufficiali del suo battaglione sul costone di Selo. 

Il 12 settembre nell’alto Isonzo cadono uomini di lingue e nazionalità diverse, giunti da lontani paesi d’Europa all’appuntamento con il tragico destino che ne stronca la giovane vita. Fra i tanti, Giovanni Brusa, nato nel 1895 a Mordano, in provincia di Bologna, operaio e soldato del 26° Fanteria; Ettore Battini, nato nel 1889 a Borgonovo val di Taro, in provincia di Parma, contadino analfabeta e soldato del 25° fanteria; Luigi Bus, nato nel 1882 a Perloz, in provincia di Aosta, del 4° alpini; Natale Monti, nato nel 1894 a Velletri, dell’11° bersaglieri; Giuseppe Taddei, nato nel 1897 a Levico, del Tiroler Jägerregiment Nr. 1; Josef Eberharter, nato nel 1896 a Innsbruck, anch’egli del TJR Nr. 1; Josip Kajba, nato nel 1893 a Zagabria, del IV/53 IR; Jendrej Klecki, nato nel 1878 a Zawada, in Galizia, del IV/58 IR; Georg Kukuiek, nato a Piskolt, allora in Ungheria, del II/5 IR. L’estate del 1915 è dunque la stagione della sofferenza della Bergamo, dei bersaglieri e di molti battaglioni alpini, ma anche dei difensori del monte che, se pur con perdite grandemente inferiori, patiscono egualmente i tormenti della trincea, dei bombardamenti e degli attacchi.

Baracche austriache sotto quota 588 di Santa Lucia.

Dopo l’attacco del 12 settembre nuovamente il fronte si tranquillizza nell’incerta attesa di nuove operazioni. Il massacro riprende su vasta scala durante la terza battaglia dell’Isonzo, quando fanti, bersaglieri e alpini per giorni e giorni sono mandati senza mezzi adeguati all’assalto dei reticolati intatti e dei reparti imperiali ben preparati alla difesa. Dal 21 al 24 ottobre i battaglioni italiani cercano di conquistare la cresta di quota 588-quota 510 e il paese di Selo, il cui saliente è inutilmente attaccato da tre diverse direzioni. In quattro giornate di battaglia la Bergamo perde 1356 uomini in azioni riassunte con agghiacciante brevità dai Diari di reggimento: «il nemico arrestò l’impeto delle truppe con una inaudita violenza di fuoco di fucileria, bombe a mano e mitragliatrice mentre esse tentavano con sommo ardire di superare i reticolati con mezzi di circostanza, tavole, scale a pioli, ramaglie. In pochi istanti furono decimate" (35). Centinaia di soldati – giovani operai, contadini, artigiani – muoiono così sui costoni fangosi di Santa Lucia (36). 

Soldati imperiali impegnati in lavori difensivi a Santa Lucia nell’autunno 1915.

Questi ultimi furiosi assalti contro linee oramai consolidate e ben protette sono tanto insensati da indurre gli stessi comandanti sul campo a rifiutarsi di mandare i propri uomini incontro a morte certa. Il 24 ottobre il Val Dora muove all’attacco di Selo e subisce perdite così rilevanti nei passaggi obbligati appena fuori dalle linee da non riuscire neppure a raggiungere i reticolati austriaci. Appena rientrate le compagnie giunge l’ordine di ripetere l’assalto, ma il maggiore Leopoldo Soria, comandante del battaglione alpino e del sottosettore sinistro di Selo, comunica che «non ritiene di proseguire l’attacco senza sacrificare le truppe» e che non intende perciò riprendere l’azione. Il colonnello De Maria, comandante del 5° bersaglieri e del settore, non riesce a fargli mutare parere e quindi «prende atto di quanto dichiara detto comandante e ne riferisce all’autorità superiore" (37). Gli alpini quel giorno non tornano all’attacco, ma il giorno dopo il maggiore Soria è rimosso «per malattia» dal comando di sottosettore. Le speranze di conquistare Santa Lucia sono oramai definitivamente spente, e gradualmente le operazioni si riducono alle normali attività di pattuglia e a locali scaramucce per stabilizzare il fronte.

L’inverno.

Dopo le grandi battaglie di ottobre i reparti infine si assestano, trincerandosi sul ripido costone dominato con lo sguardo e le armi dagli imperiali. Le truppe italiane continuano ad esercitare una forte pressione sui difensori con frequenti azioni dimostrative precedute dal brillamento dei reticolati avversari. Ogni notte pattuglie di volontari si spingono fino alle difese passive austriache trascinando decine di tubi di gelatina da collocarvi sotto e far esplodere. Il sottotenente Piero Bertoli, giunto da pochi giorni in linea con i rincalzi del 5° bersaglieri, descrive nelle proprie memorie queste operazioni tanto frequenti quanto pericolose: «Nel cuore della notte una pattuglia scavalca in silenzio il parapetto della trincea e, strisciando sul terreno, aperto a tutte le insidie della morte, cerca di raggiungere i reticolati… Un tubo di acciaio, lungo 5 o 6 metri, carico di gelatina e munito di una piccola miccia, viene spinto per tutta la sua lunghezza sotto il groviglio di filo spinato. Se l’operazione arriva a questo punto senza incidenti, il più è fatto. Un soldato, munito di un sigaro acceso, dà fuoco alla miccia e la pattuglia si ritira. Pochi secondi dopo il tubo esplode. Ma un accidente qualsiasi […] basta a dare l’allarme. Talora un razzo abbagliante squarcia le tenebre […]. In un baleno la linea nemica si accende di fiamme saettanti. La terra neutra è percossa, crivellata e sconvolta da una tempesta di piombo. I componenti la pattuglia si affrettano strisciando verso i ripari della trincea. Qualcuno vi salta dentro incolume, altri feriti, altri morenti. Altri ancora non rientrano» (39). Ai primi di novembre lo schieramento italiano viene infittito nel settore di Santa Maria: date le difficoltà del terreno, ripidissimo, battuto dal fuoco nemico e reso quasi impraticabile dal maltempo, il comando italiano rinuncia ai tentativi di sfondamento a Santa Lucia e concentra i propri sforzi sui più dolci declivi del Mengore. La brigata Bergamo si sposta così a nord, rilevando la parte meridionale del fronte della Valtellina davanti a Kozaršče, dove partecipa alle numerose azioni di novembre, mentre la 13a divisione (brigate Benevento e Messina) è schierata a presidio del settore di q. 588-Selo. Il 3 novembre Eugenio Lavatori, marchigiano di Ripe, un borgo di 2500 abitanti presso Ancona, viene inviato al fronte con il suo reparto, il 93° fanteria della Messina; appena giunto in prossimità delle linee è colpito da uno shrapnel e subito evacuato. Così egli ricorda nel suo diario la sua breve esperienza a Santa Lucia, che ci mostra anche quanto carente fosse l’organizzazione medica nei primi mesi di guerra:

Il fregio del 94° fanteria della brigata Messina su una fontana nelle retrovie di Santa Lucia.

«3 [Novembre]. Grande pioggia, tuoni, lampi e pioggia a più non posso. Scuro che non si vede nemmeno un uomo distante un passo. Ci portiamo per la mano come un cieco, poi dal gran iscuro ci siamo dispersi e ci é convenuto tornare indietro. 4 [Novembre]. Ancora tutti bagnati siamo costretti a ritirarci in un piccolo fosso perché l'artiglieria cia già scoperti. I bossoli ci vengono già prendendo. Io sono già colpito da una pallina leggermente subito alla visita medica medicato partenza. Abbiamo camminato circa 8 chilometri. Siamo arrivati in un piccolo ospedaletto lì mi hanno fatto la puntura mi anno dato un sesto di pagnotta e via ancora 2 chilometri giunti una casetta tutti bagnati stanchi siamo entrati abbiamo acceso un fuoco ci siamo asciugati un po e poi alla mattina partenza... ci hanno dato una tazza di brodo e non altro" (40).

Possiamo ricostruire il percorso di Lavatori, che è visitato al posto di medicazione insediato nei casolari oltre l’Ušnik, appena sotto le pendici di quota 588. Come tutti i feriti del settore, da qui è instradato al reparto someggiato di sanità in val Doblar, distante diversi chilometri. Al reparto someggiato vengono fatte le prime medicazioni e trattenuti solo i feriti leggeri, in vista di un prossimo ritorno al reparto, o gli incurabili per i quali è sorto un cimitero di guerra che cresce di settimana in settimana. I feriti che necessitano di ulteriori cure specialistiche sono fatti proseguire fino alla cresta di colline sopra lo Judrio, dove i soldati dei reparti in linea che giungevano con i feriti o per i rifornimenti sono riconosciuti dai rincalzi «dal loro aspetto macilento e dallo sguardo terrorizzato" (41), come ricorda un ufficiale della Messina. Lavoratori prosegue oltre Kambreško per giungere all’ospedaletto da campo n. 30, collocato a Podravne, un borgo sui costoni orientali della valle dello Judrio, poi continua il suo cammino ancora per due chilometri fino al reparto carreggiato della sezione di sanità divisionale che ha sede nel paese di Bordon, in fondo a valle Judrio sulla strada per Cividale. È un itinerario lungo e faticoso per tutti perché richiede il superamento della alture a ovest dello Judrio, e certo è una sofferenza ulteriore per le migliaia di feriti che lo percorrono, a piedi o a dorso di mulo, ancora traumatizzati dal combattimento e in attesa di cure. Lavatori, ferito lievemente da uno shrapnel, è in definitiva fortunato perché lascia il fronte dopo poche ore. Ma i soldati che non hanno una ‘ferita intelligente’ come lui, nelle trincee ruscellanti per le piogge autunnali devono restarci. Piero Bertoli ci descrive la vita in linea ai primi di novembre del 1915: «Piove. Il cielo basso e tetro incombe sulle trincee come una cappa di caligine. Nei camminamenti si affonda nel fango fino alle caviglie. Il terriccio dei parapetti frana e mette allo scoperto altri cadaveri: ci si sveglia, si lavora, si dorme, si mangia in mezzo ai morti, e più di uno ne invidia la sorte. Nell’aria umida e greve alita un tanfo nauseabondo. Il rancio della truppa e la mensa arrivano freddi; le pagnotte umide, untuose" (42). Il 4 novembre un temporale violentissimo sconvolge le precarie posizioni italiane; sempre Bertoli descrive la situazione dei bersaglieri in linea: «Abbiamo passato una notte d’inferno. Dopo la pioggerella ininterrotta di questi giorni, un temporale violento s’è abbattuto nella valle e sui monti ad accrescere con la furia degli elementi gli orrori della trincea. Scrosci diluviali si rovesciano sulle posizioni invadendo e ricoveri e trasformando i camminamenti in torrenti melmosi. Una frana nelle difese avanzate costrinse le vedette ad abbandonare il loro posto e a ritirarsi in posizioni arretrate. Altre frane ostruirono i camminamenti arrestando il deflusso delle acque. Dei soldati fradici e avviliti vagolavano nelle trincee sconvolte nella vana ricerca di un riparo, i pochi ricoveri, non ancora crollati e già invasi dalle acque, erano zeppi e non potevano accoglierli. Le vedette, immerse nel fango fino alle ginocchia, inzuppate fino alla camicia,  esposte per il crollo dei ripari al fuoco rabbioso degli austriaci, stringevano i fucili con le mani rattrappite, battendo i denti per il freddo» (43). Il Diario del 5° Bersaglieri menziona i danni causati dalla pioggia e le enormi difficoltà per far giungere viveri caldi alle linee, lontane dalle cucine un’ora di marcia lungo sentieri viscidi e malsicuri per le frane e i dilavamenti e riporta che, per le piogge, «nel mattino una grossa frana provoca la caduta del blindamento del ricovero seppellendo due bersaglieri del XXII che sono estratti cadaveri»[1]. I comandi sono preoccupati per le truppe esposte lungo tutto il fronte al maltempo incessante: il 6 novembre Cadorna scrive alla moglie che «da alcuni giorni il tempo è orribile ed è una cosa penosissima pei soldati nelle trincee, i quali, povera gente, vivono addirittura nel fango" (45). Le precipitazioni si attenuano, ma le condizioni dei soldati in trincea diventano sempre più drammatiche. L’inesistente igiene nelle postazioni scavate frettolosamente sui costoni dirupati, le piogge che costringono i soldati a vivere con i panni sempre bagnati indosso, il cibo che sovente è sostituito da scatolette e arriva quasi sempre freddo sono le cause del dilagare delle malattie. La più grave è l’enterite, spesso colerica, che si tenta di frenare con disinfezioni rudimentali. Ancora Bertoli ricorda che il 10 novembre «un bersagliere è stato colpito da crampi allo stomaco, vomito, diarrea. È giunto subito l’ordine di allontanarlo e di affondare i suoi oggetti personali in una fossa piena di calce" (46). Non esistono elenchi dei soldati morti per malattia, ma certamente sono numerosi. Già l’11 ottobre il Diario del 26° fanteria ne segnala casi, che divengono presto numerosi e spesso mortali (47). Sempre ad ottobre, il 158° fanteria è flagellato dal colera e, come ricorda Valentino Coda, «non pochi sfuggiti cento volte al piombo austriaco, periscono vittime del contagio" (48), tanto che ai primi di novembre il reggimento è messo in quarantena a Livek (Luico), dove il 6 dicembre muore di colera il sottotenente Gaudenzio Minazzoli di Novara. L’incidenza delle malattie aumenta col sopraggiungere dell’inverno, quando all’enterite e alle febbri reumatiche si aggiungono i congelamenti. Le perdite per disturbi fisici divengono enormi, neppure paragonabili a quelle per il fuoco nemico. I dati del 93° reggimento della Messina sono drammaticamente esemplari: per tutto il mese di dicembre il reparto alterna turni sulla linea quota 588-costone di Selo con turni di riposo a Case Rute, sul crinale fra Isonzo e Judrio, senza partecipare ad alcuna operazione di rilievo oltre alle abituali incursioni delle pattuglie e alle azioni dimostrative a sostegno degli assalti dei bersaglieri a Santa Lucia e a Selo. Luca De Regibus, ufficiale della Messina, ricorda una di queste stanche azioni dell’inverno del 1915: «Le nostre mitragliatrici avevano preso posizione: c’erano tutte quelle del reggimento in quel pezzetto sopra il trincerone. Io ebbi l’ordine di esplorare il terreno antistante e scegliermi una via su Selo ad ogni costo […]. C’era un burrone che finiva alla confluenza dell’Usnik con l’Isonzo. Il comandante dei bersaglieri volle maggiori mezzi contro i reticolati nemici intatti: gli ordinarono i tubi di gelatina; qualcuno fece effetto, ma insufficiente. Lanciò pattuglie con pinze tagliafili: furono inchiodate […]. Gli austriaci se la ridevano e dalle trincee chiamavano ‘chicchiricchì!’ i bersaglieri» (49). 

La lapide del volontario trentino Umberto Lucca, soldato del 93° della Messina.

Per questo motivo, le perdite in combattimento 93° reggimento della Messina dal 30 novembre 1915 al 1° gennaio 1916 sono, per l’epoca e il settore, modeste: 161 militari fra feriti e morti; fra questi ultimi, il volontario trentino Umberto Lucca, di Rovereto, che cade il 2 dicembre durante un’azione dimostrativa sul costone di Selo (erroneamente, la lapide che ricorda Lucca è collocata sopra Kozaršče, e lo assegna al 33° fanteria). Nello stesso periodo il reggimento dichiara però 1214 ricoverati per malattia, passando dai 2473 uomini di forza presente al 30 novembre ai 1098 del 1° gennaio: una media di 40 nuovi ammalati al giorno che consuma lentamente il reparto. La vita delle truppe era davvero terribile. De Regibus descrive lo stato delle linee: «Noi tutti eravamo già del colore dell’ambiente: fango sporco, sudiciume inqualificabile. Non c’erano ricoveri, non trincee, non camminamenti. Di giorno non un passo ci era permesso fare senza essere colpiti dai Cecchini che dalla cima dominavano ogni angolo […]. I morti giacevano insepolti presso i vivi, morituri. I feriti, se ancora ci tenevano alla vita, dovevano attendere la notte per scendere ai piedi del monte, presso la passerella, al posto di medicazione più vicino ed intanto deliziavano coi loro gemiti i compagni ancora illesi" (50).  Giovanni Varricchio, allora soldato del 134° fanteria della Benevento, scrive nel diario le proprie vicissitudini – che sono quelle di molti – per il congelamento dei piedi nelle trincee di Santa Lucia:

«[…] erano due giorni che io mi trovavo in quel posto quando cominciai a sentirmi acuti dolori ai piedi che a poco a poco risalendo alle gambe, si facevano più forti. Ne avvertii il Comandante del mio plotone (Tenente Necotra) il quale mi consigliò di recarmi al posto di medicazione, ma io quasi rifiutai, perché mi rincresceva di arrischiarmi a transitare di giorno in quei luoghi, esposti alla vista, e quindi al fuoco del nemico. […] nelle prime ore della notte (del 15 novembre) nevicò ed essendosi di poi il cielo rasserenato, quella neve ghiacciò rendendo impossibile il camminare. Il dolore ai miei piedi si faceva sempre più forte, e malgrado ciò rimasi in trincea per tutto il giorno e la notte del giorno 16. Il mattino del 17 prima dell’alba, camminando a stento, mi recai al posto di medicazione, ma per il numero esuberante di soldati ammalati, quel Tenente medico al vedermi mi disse con arroganza: ‘andate, che se volessi riconoscere tutti quei soldati coi piedi ammalati, dovrei fare spostare tutto il battaglione’. Deluso e dolente, fui perciò costretto a tornare in trincea. Ripetetti la strada ancora la sera di quel giorno, e il mattino del giorno 18, ma con lo stesso esito. Nelle ore pomeridiane del giorno 18, non potendo più sopportare il dolore, mi recai dal Comandante la mia Compagnia (Capitano Vaccari) e ad esso mostrai i piedi malati, […] riferendogli anche di essere stato per ben tre volte al posto di medicazione, ma che l’Ufficiale medico non aveva voluto riconoscermi ammalato. Il Capitano, osservato il mio male e convinto di quanto io asserivo, ordinò al sergente della Compagnia, di staccare una bassa (?) per l’ospedale» (51).

Il forte logoramento dei reparti si riflette sulla loro compattezza e i casi di diserzione aumentano: il 93° fanteria, dislocato in quei giorni a Case Rute, e dunque ben lontano dalle linee, fra il 30 e il 31 dicembre registra 18 dispersi, presumibilmente disertori. Il tribunale militare dell’VIII corpo d’armata, insediato a Rualis presso Cividale, giudica molti militari accusati di diserzione. Il 26 dicembre emette una sentenza capitale nei confronti di un fante del 26° Bergamo:

«Causa contro Accennatore Salvatore di Ferdinando, nato il 26 ottobre 1890 a Boscotrecase (Napoli), facchino, ammogliato, incensurato, analfabeta, detenuto per mandato di cattura del 26 novembre 1915, soldato del 26° fanteria, accusato di diserzione in faccia al nemico perché il 23 novembre 1915 arbitrariamente si allontanava dal suo reparto accampato nei pressi di S. Lucia, restando assente per parecchi giorni, e precisamente fino a che fu sorpreso dai Regi Carabinieri nei pressi di Podresca. […] Il giudicabile ha giustificato il proprio malefatto col dire che sofferente da parecchi giorni di dolori articolari alle gambe e non essendo riconosciuto dal tenente medico del suo reparto, si allontanò dalla compagnia per andare in cerca di qualche ricovero onde potersi riposare e mettersi in salute. Tale sua giustificazione così facile e comoda e così di frequente addotta dagli accusati di questo genere di reato non può essere accolta dal tribunale.

Visti gli articoli 137-5-8-27 del codice penale per l’esercito dichiara colpevole il soldato Accennatore Salvatore del reato ascrittogli di diserzione in presenza del nemico e lo condanna alla pena della morte previa degradazione e le conseguenze di legge» (52). La sentenza è eseguita il giorno stesso, come riporta il Diario del 26° reggimento: «In seguito a sentenza emanata dal Tribunale Militare di Guerra dell’VIII Corpo d’Armata a carico del soldato Accennatore Giuseppe (sic) della 16a compagnia imputato di diserzione in faccia al nemico e per ordine del Comando della 7a Divisione oggi alle 18.45 in località Valle Duole è avvenuta la sentenza previa degradazione del suddetto soldato" (53). 

Il tribunale cerca di valutare con attenzione le distinte situazioni e perviene a giudizi diversi: condanna Albino Avalli, disertore e contumace, alla fucilazione, ma Umberto Ciglione, reo di aver tardato il rientro dall’ospedale militare dove era guarito dall’enterite, a tre anni di carcere. L’11 gennaio del 1916 viene processato un giovane falegname emiliano, Roberto Ratti. Il 28 novembre Ratti ha ricevuto una lettera della madre ed è così venuto a conoscenza della morte del fratello a Plava. Sconvolto dalla notizia, Ratti lascia il proprio reparto del genio stanziato a Case Dugo, vicino a Vogrinki, nell’alta valle dello Judrio, per recarsi sulla tomba del fratello. Presto catturato dai carabinieri, è processato, ma il tribunale comprende che il comportamento del militare è stato dettato dallo shock e lo condanna a soli due mesi di reclusione, senza iscrizione sulla fedina penale:

Il cimitero italiano di Val Doblar.

«Causa contro Ratti Roberto di Giovanni, nato a Borgonovo (Piacenza) il 24 giugno 1890, falegname, incensurato, alfabeta, celibe, soldato del 26° reggimento fanteria, detenuto dal 24 dicembre 1915, accusato di diserzione […]. È rimasto provato in fatto quanto appreso: il soldato del 26° reggimento fanteria Ratti Roberto aggregato alla 1 compagnia del 1° reggimento Genio a Dugo, ricevette una lettera dalla propria madre la quale gli partecipava la morte del fratello Alessandro avvenuta sul campo d’Onore a Plava il giorno 28 novembre 1915, allo scopo di rintracciare la tomba che racchiudeva i resti del fratello si incamminava verso la suddetta località abbandonando così senza alcuna autorizzazione il proprio accantonamento. Dopo parecchie ore di cammino veniva sul tratto di strada Liga - S. Iacob arrestato dai RR. CC. È  perfetto, nella sua struttura giuridica, il reato ascritto all’accusato, il quale ha affermato di avere così agito sotto l’impulso del vivo dolore provato nell’apprendere la fatal notizia, dolore che gli tolse la coscienza e la libertà delle proprie azioni inducendolo a trasgredire il dovere militare. Il collegio in parte accoglie la tesi presentata dal pervenuto e dal suo difensore. Ritenuto che il Ratti se pure ha obiettivamente leso una precisa norma penale, mancando due chiamate effettuate al proprio reparto, deve aver agito in uno stato di semi-infermità mentale che perdura dal momento del suo allontanamento fino a quello dell’arresto; considerato che nella specie ricorre l’aggravante del tempo di guerra, visti gli articoli 138-145-157-12-13-25-27 del codice penale per il Regio Esercito e l’articolo 247 del codice di procedura comune dichiara colpevole del reato ascrittogli il soldato Ratti Roberto e colla diminuzione della semi infermità mentale, lo condanna alla pena di carcere militare col sofferto di mesi due ed alla refusione delle spese processuali. Ordina la non iscrizione della presente condanna nel certificato penale» (54). 

Il cimitero militare austriaco di Modreice.

Santa Lucia è uno dei pochissimi luoghi dove i comandi italiani decidono di ritirarsi spontaneamente, cedendo un tratto di fronte per l’impossibilità di presidiarlo. Già a novembre Cadorna, preoccupato per le condizioni dei reparti aggrappati alle pendici motose di Santa Lucia, aveva accusato il generale Frugoni di grave trascuratezza per «il logorio morale e fisico delle truppe», e gli aveva imposto di rimediare a una tale drammatica e insostenibile situazione; il 25 novembre Frugoni aveva però ribattuto che «le condizioni delle truppe […] mi sono ben note, e dipendono essenzialmente dal fatto che esse tengono quella qualsiasi linea alla quale hanno potuto pervenire in mesi di quasi ininterrotta offensiva; […] il rimedio veramente efficace può soltanto consistere o nel conquistare le dominanti posizioni nemiche […], oppure nel ripiegare su linee idonee» (55). La risposta descrive con precisione la realtà. Così, visto l’insuccesso delle ultime offensive di dicembre, il 1° febbraio 1916 i battaglioni italiani lasciano le proprie trincee, rischierandosi sulle pendici del Grad vrh e davanti all’abitato di Čiginj, e abbandonano per sempre le pale di fango gelato di Santa Lucia.

G. Alliney: La Testa di Ponte di Tolmino - Santa Lucia (Aquile in Guerra n. 23, 2015) - immagini Archivio G. Alliney

NOTE

1) E. Faldella (a cura di), I racconti della Grande Guerra, Mondadori, Milano 1966, pp. 9-10.

2) S. Fontana, M. Pieretti (a cura di), Mondo popolare in Lombardia, 9. La Grande Guerra, Silvana Editoriale, Milano 1980, p. 183.

3) Diario Storico del 25° Reggimento fanteria, AUSSME, 18 agosto 1915.

4) Relazione sottotenente Salterio, AUSSME, Fondo F. 11, n. 500.

5) M. Negroni, Virtus, Società di educazione fisica Bologna. Notizie storiche 1871-1931, Bologna, Tip. Nino Finzi, 1932.

6) Diario Storico del 5° Reggimento bersaglieri, AUSSME, 20 agosto 1915.

7) Diario Storico del 5° Reggimento bersaglieri, AUSSME, 22 agosto 1915.

8) Diario Storico del 5° Reggimento bersaglieri, AUSSME, 22 agosto 1915.

9) Il Diario del 26° reggimento fanteria in data 29 agosto scrive: «Si richiedono immediatamente le pinze che erano state cedute pochi giorni innanzi al 5° bersaglieri». La dotazione è in ogni caso del tutto insufficiente e dobbiamo restare ammirati quando leggiamo nello stesso diario che quel giorno «la 14a compagnia riusciva a aprire varchi in 50 metri di reticolato pur essendo provvista di una sola pinza piccola».

10) Diario Storico del 5° Reggimento bersaglieri, AUSSME, 22 agosto 1915.

11) C. Salsa, Trincee, Sonzogno, Milano 1936, p. 103.

12) T. Torriani, La guerra allegra. Memorie di un bersagliere, Ardita, Roma 1933, p. 51. L’episodio del bombardamento del comando di brigata, insediato a Volčanski Rute (Scuole Rute), è riportato anche da un ufficiale della Messina, che lo sentì raccontare nel novembre del 1915: «Mi raccontarono che nella scuola c’era una fotografia della maestrina cogli alunni, una bionda incantevole, e che Maggiotto aveva voluto installarsi lì dentro, benché in vista; che strillava forte, che le granate avevano sorpreso lì tutto il Comando, rimanendovi ucciso fra gli altri l’attendente del generale; ma che questi, salvo a stento, s’incaponiva a gridare che le granate avevan paura di Maggiotto» (L. De Regibus, Fanti in trincea, La Prora, Milano 1935, p. 21). Giovanni Maggiotto (1857-1938) era stato comandante dell’8° bersaglieri in Libia; per il suo comportamento coraggioso era stato ritratto , in groppa alla sua puledra ‘Vispa Teresa’, sulla copertina della Tribuna Illustrata del 6 - 13 ottobre 1912, con la didascalia Il generale Maggiotto a Zanzur insegue a fucilate gli arabi fuggenti. Promosso per meriti di guerra a Homs, fu comandante della brigata Bergamo dal 24 maggio al 14 luglio 1915. Maggiotto era già salito agli onori delle cronache a inizio secolo, quando aveva risolto una questione spinosa ad Annie Vivanti, che aveva bisogno di un cavallo che galoppasse fieramente per presentarsi al suo amante Giosuè Carducci a Napoli, ma aveva a disposizione solo un mite animale. L’allora capitano Maggiotto aveva risolto il problema mettendo «un po’ di zenzero sotto la coda» del cavallo, che così sfilò come doveva. In quell’occasione Maggiotto fu fotografato assieme al poeta e alla sua amante. Nel dopoguerra Maggiotto aderì subito al fascismo, divenendone personaggio di rilevo. Con i generali in pensione Fara, Ceccherini e Tiby, Maggiotto comandò una delle colonne della marcia su Roma. Giunto nella capitale sfilò dal Lungotevere e poi all’Altare della Patria e al Quirinale. Quel giorno fu ripreso da un operatore cinematografico dell’Istituto Luce. Successivamente fu commissario prefettizio ad Ancona per un anno, poi prefetto a Como, Grosseto e Girgenti (Agrigento). Di questo ultima funzione resta il ricordo di una dissidente internata nella zona: «Pover’uomo, si era messo in testa di convertirci […] Così ci schierava tutti in riga e ci faceva la paternale, salito su uno sgabello. Perché era basso e tozzo, con una gabbana impellicciata e le ghette. Concludeva: “Viva il Duce! Viva l’Italia”. Il nostro silenzio era di tomba. Lui aspettava e agitava la barbetta biondastra. “Almeno gridate viva l’Italia!”. Ma non c’era verso, noi si rimaneva zitti. Allora scendeva dal podio e smaniava. “Imbecilli! Deficienti dalla nascita siete!”» (A. Innocenti Periccioli, Giorni belli e difficili: l'avventura di un comunista, Jaca Book, Milano 2001, p. 126). Maggiotto fu anche autore di un fortunato pezzo per fanfara, ancora suonato all’occasione, il ‘Silenzio di Maggiotto’.

13) Diario Storico del 5° Reggimento bersaglieri, AUSSME, 9 ottobre 1915.

14) A. Sema, Piume a nord est. I bersaglieri sul fronte dell’Isonzo (1915-1917), Edizione Goriziana, Gorizia 1997, pp. 53-54. Sema cita la Relazione Ufficiale Italiana: RUI, II, pp. 298-307. Così anche, fra gli altri, G. Pieropan, 1914-1918. Storia della Grande Guerra sul fronte italiano, Mursia, Milano 1988, p. 140. 

15) O. Di Brazzano, La grande guerra nell’alto e medio Isonzo. Bainsizza, Monte Nero, Caporetto, Plezzo, Rossato Editore, Valdagno 1999, p. 110.

16) Diario Storico del 5° Reggimento bersaglieri, AUSSME, 23 agosto 1915.

17) Diario Storico del 26° Reggimento fanteria, AUSSME, 13 ottobre 1915.

18) Diario Storico del 26° Reggimento fanteria, AUSSME, 14 ottobre 1915.

19) Diario Storico del 25° Reggimento fanteria, AUSSME, 23 ottobre 1915.

20) Diario Storico del 5° Reggimento bersaglieri, AUSSME, 28 agosto 1915.

21-26) Relazione capitano Vigo, AUSSME, Fondo F. 11, n. 126.

27) Diario Storico del 5° Reggimento bersaglieri, AUSSME, 28 agosto 1915.

28) Relazione capitano Vigo, AUSSME, Fondo F. 11, n. 126.

29) Diario Storico del 5° Reggimento bersaglieri, AUSSME, 29 agosto 1915.

30) V. Coda, Due anni di guerra con la brigata Liguria, Sonzogno, Milano 1919, pp. 60-61.

31) Coda, Due anni di guerra, p. 61.

32) Coda, Due anni di guerra, p. 62.

33) Il Val d’Orco e il Val Baltea lasceranno poco dopo il settore; l’Intra, che resterà a Santa Lucia fino al 1° novembre, partecipando anche alle successive azioni, sacrificherà sul monte 566 uomini.

34) E. Wisshaupt, Die Tiroler Kaiserjäger im Weltkriege 1914-1918, II, Reprint der Originalausgabe von 1935, University of Innsbruck 2013, pp. 103-104.

35) Diario Storico del 26° Reggimento fanteria, AUSSME, 24 ottobre 1915.

36) Non si può nominarli tutti, ma fra i tanti, desunti per lo più dalla banca dati dei caduti della provincia di Bologna, da dove provenivano molti dei soldati della brigata Bergamo, ricordiamo: Carlo Sebastiani, caporale nel 25° fanteria, nato a Bologna nel 1891, disperso a Santa Lucia il 21 otobre 1915, cameriere, celibe; Salvatore De Parasis, nato a Collepardo (Frosinone) nel 1893, morto il 22 ottobre 1915 sulle alture di Santa Lucia; Luigi Casadio, soldato nel 26° fanteria, nato a Imola nel 1890, morto per ferite a Valle Doblar il 22 ottobre 1915, operaio, celibe; Ettore Poli, soldato nel 26° fanteria, nato a Lizzano in Belvedere nel 1890, morto per ferite sul Costone di Selo il 22 ottobre 1915, agricoltore, celibe; Antonio Albertazzi, soldato nel 26° fanteria, nato a Camugnano nel 1891, morto per ferite a Santa Lucia di Tolmino il 23 ottobre 1915, possidente, celibe; Federico Berti, soldato nel 26° fanteria, nato a Imola nel 1895, morto per ferite a Santa Lucia il 26 ottobre 1915, operaio, celibe; Bruno Brasa, soldato nel 26° fanteria, nato a Bologna nel 1894, morto per ferite in sezione sanità il 26 ottobre 1915 e sepolto nel cimitero di val Doblar, gelatiere-pasticciere, celibe; Ettore Lanzarini, soldato nel 26° fanteria, nato a Praduro e Sasso nel 1894, morto per ferite sul campo a Santa Lucia il 29 ottobre 1915, colono, celibe.

37) Diario Storico del 5° Reggimento bersaglieri, AUSSME, 24 ottobre 1915.

38) P. Bertoli, La grande avventura 1915-1918. Tre anni di guerre con i bersaglieri, con gli alpini e negli ospedali da campo, Baldini e Castoldi, Milano 1969, pp. 47-48.

39) Diario Storico del 5° Reggimento bersaglieri, AUSSME, 27 novembre 1915.

40) E. Lavatori, Diario, Archivio Diaristico Nazionale, Pieve Santo Stefano, DG/88.

41) De Regibus, Fanti in trincea, p. 21.

42) Bertoli, La grande avventura 1915-1918, p. 46.

43) Bertoli, La grande avventura 1915-1918, p. 49.

44) Diario Storico del 5° Reggimento bersaglieri, AUSSME, 5 novembre 1915.

45) L. Cadorna, Lettere famigliari, Mondadori, Milano 1967, p. 128.

46) Bertoli, La grande avventura 1915-1918, p. 46.

47) Nell’ultima decade di ottobre, e solo del 26° fanteria, abbiamo questi dati: il 20 ottobre muore per malattia nel reparto someggiato in val Doblar il caporale Elio Zobboli, nato a Crevalcore nel 1890, bracciante che lascia due orfani, un maschio e una femmina. Il 21 nella 7a sezione sanità a Bordon muore per enterite acuta Alberto Spini, nato a Vergato nel 1895, bracciante celibe, e all’ospedale di tappa di Cividale, per malattia non specificata, cessa di vivere Silvio Tommasi, nato a Gaggio Montano nel 1894, agricoltore celibe. Il 24 in val Doblar muore per enterite il caporale Senocrate Savioli, nato a Ferrara nel 1888, residente a Bologna, commesso viaggiatore, che lascia un’orfana.

48) Coda, Due anni di guerra, p. 67.

49) De Regibus, Fanti in trincea, p. 36.

50) De Regibus, Fanti in trincea, pp. 28-29.

51) G. Varricchio, Diario, Archivio Diaristico Nazionale, Pieve Santo Stefano, MG/90.

52) Allegato 193 del Diario Storico del 26° Reggimento fanteria, mesi dicembre 1915-gennaio 1916, AUSSME.

53) Diario Storico del 26° Reggimento fanteria, AUSSME, 26 dicembre 1915.

54) Allegato 226 del Diario Storico del 26° Reggimento fanteria, mesi dicembre 1915-gennaio 1916, AUSSME.

55) Si veda la ben documentata voce Pietro Frugoni su Wikipedia.

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