GIACOMO BOLLINI

Giacomo Bollini, nato a Bologna nel 1986, dove risiede con la moglie Giulia e i figli Massimiliano ed Emilio, si è laureato all’Università di Bologna in Storia Contemporanea con tesi sulla produzione industriale e sulle forniture militari dalle imprese coloniali alla Grande Guerra. Da anni si dedica alla ricerca storica con particolare attenzione alle vicende personali dei caduti e dei reduci e al contributo emiliano romagnolo durante il primo conflitto mondiale. Si affianca alla ricerca storica la passione per l’escursionismo e il trekking sui campi di battaglia del fronte italiano. E’ autore di diverse pubblicazioni storiche tra le quali Il calvario degli emiliani e Storia cronologica dei combattimenti sul fronte italiano 1915-1918, entrambi pubblicate con la Gaspari Editore, rispettivamente nel 2013 e 2014. Per Itinera ha invece curato l’edizione del diario di guerra dell’alpino Giocondo Bonotto, In guerra con il 6° reggimento alpini, in collaborazione con Ruggero Dal Molin e Paolo Pozzato di recente pubblicazione. E’ redattore e progettista del Museo Virtuale della Grande Guerra di Redipuglia sorto sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica. Collabora con il progetto Rileggiamo la Grande Guerra e fa parte del comitato scientifico della Storia degli emiliani e romagnoli nella Grande Guerra. E’ collaboratore del Civico Museo del Risorgimento di Bologna e vicepresidente dell’associazione storico-culturale Emilia Romagna al fronte. Nel maggio 2014 ha collaborato con la rivista di geopolitica Limes, del gruppo L’Espresso, proprio per il numero dedicato alla Grande Guerra con un articolo dedicato all’importanza del primo conflitto italiano per la costruzione dell’identità nazionale. 

 

BOLOGNA NELLA GRANDE GUERRA

di Giacomo Bollini

Dall’annessione al nuovo secolo

La città di Bologna che si affaccia sul nuovo secolo è una città profondamente diversa da quella che conosciamo. Non deve ingannare ad una rapida occhiata il suo centro storico così ben strutturato e dai palazzi signorili. La Bologna che sarà città di primaria importanza per le retrovie del fronte durante la Grande Guerra ha mutato  radicalmente aspetto da quei giorni. Annessa al Regno D’Italia nel 1859, la città non era più neanche lontanamente la città industriale che fra il ‘500 e ‘600 aveva prosperato tramite la produzione della seta, e che era, con i suoi 60.000 abitanti nel 1650, una delle città più grandi d’Europa. La parabola dell’industria serica era definitivamente terminata nel 1830. La concorrenza spietata di altri centri produttivi e il rapido cambiamento nelle abitudini dell’abbigliamento avevano sancito la fine della Bologna industriale. All’entrata dei Piemontesi in città, dunque, Bologna si presentava come una nobile decaduta. Il primo periodo post unitario vide una ripresa economica, sociale e culturale della città. Ma, come in ogni situazione in cui a seguito di una decadenza economica si volge il passo allo sviluppo e alla modernità, anche a Bologna la belle epoque, con il suo sguardo al progresso, creò situazioni di miseria, di sfruttamento dei ceti inferiori, e di differenza fra le classi sociali fra le più esasperate di Italia.

Addossati ai meravigliosi palazzi signorili bolognesi vi erano tuguri che nessuno si era mai preoccupato di risanare, sia prima sia dopo l’unificazione. Le amministrazioni conservatrici, cui va il merito di avere dato a Bologna una bella Via Indipendenza e una caratteristica Via Farini, non furono capaci di impostare un piano per la costruzione di case popolari a basso costo. (-) La rete delle fognature era quasi insistente, se si esclude qualche strada del centro dove, per altro, esistevano solo gli scavi.

Si pensi al fatto che solo nel 1882 Bologna ebbe un acquedotto. Tuttavia questo forniva acqua malsana, buona più per i bagni pubblici, ma non per essere bevuta, igienicamente molto mediocre e che può, in contingenze sfavorevoli, diventare assai pericolosa per la salubrità locale, come recitava la relazione di una commissione tecnica incaricata dall’amministrazione comunale di analizzare l’acqua dell’acquedotto bolognese. La malaria era ancora una malattia all’ordine del giorno per i medici bolognesi. Bologna era dunque sì la città sede dell’Università più antica del mondo, la città di Carducci, Giorgio Morandi, Panzacchi e  Zanichelli, ma era anche una città dove a pochi passi se non a ridosso di palazzo Pepoli, palazzo della Mercanzia, palazzo Poggi, palazzo Grassi, palazzo Bargellini, c’erano case fatiscenti dove le famiglie dei lavoratori sottopagati vivevano ammassate formando ghetti come quelli di via del Pratello, via Santa Caterina, via San Giacomo, via dell’Inferno, via Sant’Apollonia, via dell’Unione, e tanti altri, dove prosperava la microcriminalità e la prostituzione.

Il censimento del 1901 registrò circa 100.000 abitanti in città e poco meno della metà in campagna. Dei 100.000 bolognesi di città  ben 70.000 erano non abbienti al punto da non pagare nemmeno le tasse e quasi la metà vivevano in tuguri malsani, nella sporcizia e spesso nel più assoluto degrado morale e materiale.

Le amministrazioni comunali conservatrici a cavallo di inizio secolo tentarono di dare una risposta almeno dal punto di vista architettonico al degrado del centro città. Lo stile da imitare era quello di Parigi e dei suoi grandi Boulevards. Questi erano opera del’urbanista di Napoleone III barone Haussmann che con la loro creazione voleva così abbattere zone fatiscenti e costruire grandi assi della viabilità urbana con le più moderne fognature, nonché creare strade talmente larghe da rendere molto difficile se non impossibile la creazione di barricate e sfavorire così la guerriglia urbana che aveva flagellato Parigi durante La Comune nel 1871. Così anche a Bologna furono intrapresi i lavori per la creazione delle centralissime Via Ugo Bassi, Via Rizzoli e Via dell’Indipendenza. Fu aperto anche il cantiere in tutta la città per la posa dei binari per il nuovo tram elettrico. Nel 1902 fu abbattuta la cinta muraria, simbolico confine tra città e campagna ed ultimo ostacolo per l’incremento della velocità dei traffici e dei movimenti di uomini e merci favorendo così anche l’ampliamento delle zone edificabili e industrializzabili. Bologna apriva così, non solo metaforicamente, le porte al futuro: automobili, grandi strade, liberismo economico.

Bologna e i militari

Bologna  fu una città cardine per l’esercito italiano  fin dai primi giorni dopo l’annessione e continuò ad esserlo fino alla fine della Grande Guerra. Ancora oggi porta  evidenti segni della sua importanza militare nel tempo, quali le numerose caserme presenti nell’area comunale, anche dentro al centro storico stesso. Nel 1859 con l’annessione dell’Emilia-Romagna, il confine italo-austriaco coincideva con il fiume Po. Il Veneto sarà annesso all’Italia solo al termine della Terza Guerra d’Indipendenza nel 1866. Con il nemico attestato al di là del grande fiume, risultava necessaria la costruzione di una linea fortificata per contrastare un’eventuale avanzata austriaca.

L’orientamento e l’ossatura dell’Appennino settentrionale ed il corso del Po suggerirono al generale Fanti di sfruttare i valori geografici e strategici della pianura emiliana, in funzione nazionale. Ne derivò l’idea di rafforzare l’esistente piazzaforte di Piacenza e di creare ex novo quella di Bologna.       

Nel 1860 cominciarono i lavori di costruzioni del campo trincerato di Bologna. Il campo formava un anello continuo di 12 chilometri intorno alla città ad una distanza media di 1500 metri dalla cinta muraria cittadina. Fu costruito in tutta fretta e con materiali precari (terrapieni e tronchi) “sotto la spinta della necessità di assicurare in breve tempo la difesa della pianura padana alla destra del Po”. Il punto più importante di tutto il campo trincerato bolognese era la testa di ponte di Casalecchio, subito al di là del fiume Reno, che da sola contava una guarnigione di 1000 uomini fra fanti e artiglieri. Lungo tutta la cintura collinare che abbraccia Bologna da sud, furono costruiti tre importanti forti, magazzini e polveriere.

Completata la campagna nell’Italia centrale che portò alla costituzione dello Stato unitario e fortemente diminuito il timore di una imminente invasione austriaca, l’opera della fortificazioni fu proseguita con maggior calma, completando e migliorando tutto il sistema. (-) Nel 1875 la Commissione di Difesa Nazionale presieduta dal generale Mezzacapo, decise di togliere Bologna dalla funzione di perno della difesa dell’alta e media Italia: da questo momento furono svolte solo opere di ripristino e di manutenzione. Dal 1876 al 1880 furono mantenuti piccoli presidi militari presso alcune casermette o magazzini di polveri e munizioni. Si può dire tuttavia che  il campo trincerato in quegli anni non esistesse già più. Nel 1889, valutando che “la grande ciambella” del trinceramento, specialmente in pianura, ostacolava l’espansione normale della città, il comune di Bologna decise lo studio di un piano regolatore destinato a dare un disegno certo all’espansione cittadina.

Quasi tutte le opere difensive del campo trincerato furono demolite o riutilizzate, sia in ambito civile, che industriale. Molto probabilmente è anche questo uno dei motivi per il quale un evento come la costruzione di un importante campo trincerato è stato completamente rimosso dalla memoria collettiva della città di Bologna, a tal punto che la sua rievocazione “può a distanza di tempo apparire come una scoperta”. Probabilmente nessuno dei frequentatori del parco pubblico della Lunetta Gamberini sa che sta camminando su un spalto (anche se spianato) del Forte di Strada Maggiore, dove era piazzata una batteria di 4 o 8 cannoni a guardia dell’arteria stradale della Via Emilia. Stesso discorso si può fare per il moderno parco della Lunetta Mariotti, che faceva parte del forte Beverara. Sebbene il campo trincerato di Bologna ebbe vita breve, si può certamente affermare che abbia lasciato alla città un’importante eredità.

Per Bologna le conseguenze della costruzione del campo trincerato furono molteplici e durature: basti considerare il ruolo ancor oggi ricoperto di principale nodo ferroviario del neonato stato unitario allora attribuitole proprio per la presenza di difese atte a proteggere le vie di comunicazione fra nord e sud della penisola.

Le ferrovie a Bologna, in effetti, conobbero un rapido sviluppo. Nello Stato Pontificio di cui Bologna faceva parte prima dell’unità nazionale, fino alla morte di papa Gregorio XVI, che aveva definito opera diabolica la prima ferrovia del Regno delle due Sicilie, nulla si era mosso. Sebbene con Pio IX qualcosa fosse cambiato, furono certamente i Piemontesi a dare il via alla costruzione di varie tratte a partire da Bologna, quali quella con Porretta, Piacenza ed Ancona. Ma non furono solo le ferrovie a beneficiare di questo nuovo ruolo di Bologna nella scacchiera difensiva nazionale. Molte industrie nacquero e fiorirono in città grazie alle commissioni dell’esercito: una su tutte lo stabilimento alimentare Casaralta. Costruito guarda caso sui resti del forte Galliera e precisamente sulla Lunetta Casaralta facente parte del campo trincerato, lo stabilimento operava come stalla di bovini, macello, e centro di produzione di scatolette di carne di bue in conserva e di confezioni di brodo concentrato.

Il Generale Luigi Capello

Il Generale Luigi Capello

E’ superfluo dire che durante la Grande Guerra gli operai furono militarizzati e la produzione fu totalmente indirizzata ai fabbisogni del fronte. Ormai Bologna era per l’esercito stesso una città chiave, sede di comandi importanti e di reparti. La vicinanza, poi, con la scuola militare di Modena non faceva altro che rafforzare questo legame.

Molti degli ufficiali che furono personaggi di spicco transitarono e resero servizio presso uffici e caserme bolognesi. Solo per citarne alcuni: Carlo Porro, Luigi Capello, Luigi Nava, Italo Gariboldi. Al momento dell’entrata in guerra Bologna era sede del comando del VI corpo d’armata dell’esercito, di un comando di artiglieria e del Genio, e soprattutto di un importante distretto militare. In tempo di pace a Bologna e Modena erano stanziati i due reggimenti della brigata Pistoia, il 35° e il 36° fanteria. Inoltre, sempre a Bologna erano distaccati il 6° bersaglieri, il 25° reggimento di lancieri di Mantova e l’8° reggimento di artiglieria da fortezza. Quasi nessun’altra città in Italia poteva vantare un tale concentramento di truppe, comandi, uffici annessi, caserme e stabilimenti produttivi al servizio dello sforzo bellico.

Bologna: la “provincia rossa”

Il Socialista Andrea Costa

Il Socialista Andrea Costa

La storia di Bologna negli anni a cavallo fra la fine del XIX secolo e i primi anni del XX è strettamente legata all’evolversi della politica italiana. L’Emilia Romagna fu in quegli anni la culla del socialismo italiano ed una delle aree in cui il movimento politico socialista ebbe maggior successo e seguito. Basti ricordare come già nel 1881 ad Imola, in provincia proprio di Bologna, Andrea Costa aveva fondato il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna, che poi confluì nel 1893 nel più grande Partito Socialista Italiano, fondato da Filippo Turati Genova nel 1892. Andrea Costa, inoltre, è il primo deputato di idee socialiste ed appartenente ad un partito dichiaratosi socialista ad entrare nel parlamento italiano, eletto alla Camera con i voti ottenuti nei collegi di Imola e Ravenna. Molte erano anche le organizzazioni dei lavoratori che vennero fondate in Emilia Romagna: Federazioni di mestiere, Camere del Lavoro, società di mutuo soccorso e cooperative nacquero in tutto il territorio, con fini solidaristici nei confronti degli operai e dei contadini. Le forze politiche italiane che si alternarono al governo del paese giudicarono la nascita di queste organizzazioni e di questi partiti come una vera e propria minaccia. Il concetto di politica di sinistra che aveva caratterizzato l’Italia era totalmente diverso da quello che si stava affacciando sul paese. Il partito socialista era un partito di massa, portavoce dei ceti meno abbienti, degli operai, propugnatore di idee rivoluzionarie che fondevano insieme una tradizione mazziniana, repubblicana ed anarchica già ben presente e viva in tutto il regno. La risposta dei governi nei confronti di questi movimenti e delle loro richieste fu sempre di natura repressiva.

Umberto I di Savoia

Umberto I di Savoia

Questa linea di comportamento fu in toto appoggiata da re Umberto I, che di certo approvava e caldeggiava il ricorso alla repressione anche violenta. Negli ambienti socialisti e anarchici era sopranominato “Re Mitraglia” poiché aveva approvato che si sparasse sulla folla che manifestava a Milano nel maggio 1898 con l’artiglieria caricata a mitraglia, causando la morte di 80 cittadini e il ferimento di altri 450. Non pago di questo, Re Umberto I aveva anche insignito il generale Bava Beccaris, autore di quella strage, della Gran Croce dell’Ordine Militare di Savoia, per quella che dalla monarchia fu giudicata una brillante azione militare. Da un paese che agiva secondo questi canoni nei confronti della protesta popolare non ci si poteva aspettare che una risposta dello stesso tono, di natura violentemente repressiva. Per questo fu fondata una fitta rete di polizia e informatori che faceva capo direttamente alle prefetture vere e proprie  appendici  del  Ministero degli Interni e organi  di controllo dell’ordine pubblico in ogni città italiana capoluogo di provincia, che aveva il compito di spiare, sorvegliare, schedare e raccogliere sempre più informazioni su tutti questi “pericolosi” movimenti di massa. Nacquero così i casellari politici provinciali delle prefetture, proprio per combattere e controllare i “sovversivi” che turbavano l’ordine prestabilito del paese. A Roma, presso il Ministero degli Interni, aveva sede il Casellario Politico Centrale (CPC), che raccoglieva copie dei fascicoli degli schedati più pericolosi di ogni Casellario Politico Provinciale (CPP). Istituito nel 1894 con le circolari della Direzione Generale Pubblica Sicurezza n. 5116 del 25.5.1894 e n. 6329 del 16.8.1894 il Casellario Politico Centrale rimase in funzione fino alla seconda metà degli anni ’60. E’ significativo riportare la data di istituzione del CPC soprattutto se messa in relazione con la nascita del PSI, di appena un anno precedente. Secondo quanto recita la circolare istitutiva del CPC, lo scopo e utilità del servizio era quello di: "mantenere alta l'attenzione delle Autorità di Pubblica Sicurezza sui maneggi dei rivoluzionari più pericolosi e di raccogliere presso la D.G. della PS, per averli sempre a portata di mano, tutti gli elementi relativi alla operosità ogni dì più intensa e varia di essi".


La polizia italiana spia, fa spiare, raccoglie voci e pettegolezzi, sistematicamente, giorno dopo giorno, pagando informatori e confidenti, e distribuendo fondi segreti. Spie al servizio di ispettori, di questori, di prefetti, di consoli, ma non solo: non c’è direttore postale in Italia che non controlli o non trattenga la corrispondenza su richiesta della polizia. L’ideale cui tende la riorganizzazione della Pubblica sicurezza del nuovo regno è poter disporre di tanti archivi quante sono le questore nei quali ogni persona onesta o criminale vi trova la sua biografia.
Niente omicidi, niente bombe. Sorveglianza, piuttosto: una sorveglianza muta  e per lo più inavvertita, che produce segnalazioni, fotografie, rapporti, prospetti, schede, bollettini, registri, fascicoli, archivi. [-] osservare, prevenire, reprimere, scoprire: questi gli scopi dichiarati dalla polizia nei primi decenni dell’Unità. Di questi, il più importante – così si leggeva nei manuali- era il primo, e cioè la capacità di osservare gli indizi che sogliono annunciare il male prima ancora che avvenga, raccogliendo anche ciò che sembra di nessuna importanza, anche il buono e l’indifferente, per districarne il cattivo che vi può essere nascosto o confuso. [-] Detto in altre parole, in quegli anni si andò costruendo in Italia un sistema di polizia basato sul sospetto e sulla criminalizzazione di chi dissente, secondo una prassi ereditata dallo Stato assoluto, che a sua volta riprendeva procedure inaugurate dalla Santa Inquisizione. Creando la figura del nemico, gli apparati mettono in riga la società, ribadiscono il controllo sui cittadini e giustificano il mantenimento di una legislazione che reprime e soffoca i diritti civili.[1]

Bologna non faceva eccezione: aveva anch’essa un Casellario Politico Provinciale ed una fitta rete di informatori e uomini della polizia che organizzavano retate, arresti, schedature e repressione nei confronti dei “sovversivi” socialisti bolognesi. Fra tutte le regioni del regno sabaudo l’Emilia Romagna era considerata la terra della sedizione contro lo Stato e le sue istituzioni, una vera  e propria base operativa per tutti i più pericolosi  sovversivi politici italiani. Anni di repressione con la forza, arresti, spionaggio e provvedimenti di polizia non erano riusciti né a piegare né tantomeno a indebolire la forza dei movimenti socialisti, operai e anarchici della regione né a “soffocare le loro aspirazioni a una società migliore”.Quella che in Emilia Romagna era una buona posizione di partenza del P.S.I., con la nuova legge elettorale promulgata da Giolitti nel  1912, divenne una vera e propria posizione di forza. Il suffragio quasi universale maschile introdotto dal governo Giolitti prevedeva che tutti gli uomini capaci di leggere e scrivere con almeno 21 anni potevano votare, mentre gli analfabeti potevano votare a partire dai 30 anni. Inoltre il voto venne esteso a tutti i cittadini che avevano già prestato servizio militare. L’elettorato italiano era così numericamente vertiginosamente lievitato: da tre milioni di votanti a otto milioni e settecentomila. In precedenza avevano diritto di voto soltanto i maschi maggiorenni alfabetizzati (il che riduceva moltissimo i numeri dei votanti, essendo l’Italia uno dei paesi con il maggior tasso di analfabetizzazione d’Europa) ed inoltre tutti i cittadini di sesso maschile che versavano imposte dirette per una cifra annua pari o superiore a 19,8 lire. La nuova legge favorì il Partito Socialista. Alle elezioni politiche del 1913 furono eletti alla Camera cinquantatre deputati socialisti e ventisei riformisti. I due partiti messi insieme nella legislatura precedente ne avevano soltanto quarantasei. In provincia di Bologna i risultati per i socialisti furono un vero trionfo. Degli otto collegi in cui era divisa la provincia, cinque andarono al P.S.I. e uno agli alleati riformisti, uno in più rispetto alla legislatura precedente. Inoltre un vero successo fu il consistente aumento numerico dei voti conquistati: 42.441 (che salirono poi a 47.473 dopo i ballottaggi e dopo aver stretto un’alleanza apposita con i radicali) contro i 21.870 delle elezioni del 1909.

Giovanni Giolitti

Giovanni Giolitti

Questi risultati rappresentarono una vittoria schiacciante anche per un altro motivo. Il liberale capo del governo Giolitti, che si era espresso lungamente in favore di una campagna elettorale corretta e senza brogli, aveva tentato in ogni modo con l’appoggio del prefetto Dallari di ostacolare la vittoriosa marcia dei socialisti bolognesi, violando le stesse regole di cui si faceva promotore. Per far si che nel collegio di Castel Maggiore Genuzio  Bentini non venisse rieletto per la terza volta, Giolitti tentò in ogni modo di convincere il marchese Tanari, sindaco uscente di Bologna, a candidarsi, promettendogli una facile vittoria pilotata insieme al prefetto. Tanari rifiutò, conscio che anche con i brogli promessi si sarebbe avviato verso una sicura sconfitta. Lo stesso fu fatto a Cento e a Budrio, ma i risultati furono sempre negativi. Del resto lo stesso prefetto Dallari scriveva a Giolitti dicendo che “i socialisti sono un blocco compatto” mentre i costituzionali clericali “una massa amorfa”. Bologna fu definita la “provincia rossa”. Centri quali Imola, vera e propria culla del socialismo italiano, Molinella, “centro principale della lotte agrarie della provincia e fucina nella quale si forgiavano i migliori quadri sindacali socialisti” con la sua Lega Sindacale, organo che tutelava i lavoratori, avevano contribuito a questa nomea. Ma non solo, “alla vigilia della amministrative del 1914 il P.S.I. e le organizzazioni popolari controllavano ventiquattro dei sessantuno comuni della provincia. La “bassa” agricola era quasi tutta gestita da amministrazioni rosse. Si trattava della zona più ricca e popolata della provincia, con i comuni che economicamente e politicamente “pesavano” di più. Nella zona collinare i socialisti avevano avuto meno successo, se si esclude Porretta Terme, le amministrazioni comunali era ancora quasi tutte in mano ai clericali. E’ indubbio che si trattava per il P.S.I. di una netta posizione di forza.

Bologna: la “città rossa”

Francesco Zanardi

Francesco Zanardi

Sebbene in provincia i socialisti avessero un netto successo, a Bologna, dall’Unità al 1914, si erano alternate amministrazioni clerico-moderate. “Sulle poltrone della Giunta comunale si erano seduti solo rappresentanti aristocratici: duchi, conti, principi, marchesi e baroni si sprecavano. I sindaci erano stati quasi tutti nobili.” (PG 43) “Bologna era ancora una città rigidamente divisa in classi. Al primo gradino della scala sociale stavano i nobili che ereditavano il potere economico con quello politico. La regola era che chi possedeva di più dovesse anche comandare di più. Subito dopo veniva la borghesia e il ceto professionale, quindi i ceti intermedi e commerciali ed infine il proletariato. Chiunque avesse tentato di turbare questo ordinamento sociale era considerato un sovversivo, e come tale, andava combattuto” (PG 47). Nel 1911 il sindaco Tanari, a causa dei suoi impegni parlamentari e di problemi di salute, si dimise. Gli subentrò il vice-sindaco Ettore Nadalini. La sua Giunta però durò molto poco: il 6 novembre 1913 anch’egli si dimise. Dal 3 gennaio 1914 la città fu amministrata da un regio commissario, con il compito di guidare la città e garantire una campagna elettorale sicura e corretta fino al giorno delle elezioni, fissato il 28 giugno del 1914. Era l’occasione che il P.S.I. bolognese aspettava per  conquistare l’amministrazione comunale. Alle elezioni politiche del 1913 per la prima volta a Bologna i socialisti avevano ottenuto la maggioranza dei voti, seppur di non molto (15.098 voti contro i 13.183 delle destre). Era il segnale che anche in città la tendenza era cambiata. Il 19 giugno, a pochi giorni dalle elezioni, la lista socialista fu resa nota. I candidati erano quarantotto di cui, ventuno operai, diciassette professionisti, cinque impiegati, tre commercianti e due ragionieri. A capo della lista era Francesco Zanardi, candidato sindaco. La composizione della lista socialista fece grande scalpore. L’Avvenire d’Italia, il giornale della curia, scrisse che Bologna era minacciata da una “tirannide plebea”, composta da uomini sconosciuti, che non conoscevano la politica e la realtà cittadina e che non sarebbero mai stati in grado di governare e amministrare la città. Di Francesco Zanardi, farmacista originario di Poggio Rusco in  provincia di Mantova, le opposizioni e i loro organi di propaganda e divulgazione dicevano  che era un noto agitatore di piazza segnalato alle autorità, un individuo quindi pericoloso e tutt’altro che adatto a ricoprire incarichi politici di responsabilità. “Bologna”, scrivevano sempre su L’Avvenire d’Italia in data 21 giugno 1914, “non potrà sopportare un’onta di tale natura”. Il “fango” che stava sempre più  minacciando di investire Palazzo d’Accursio, sede del comune, andava fermato a tutti i costi. Ma la coalizione di forze politiche che si avviava allo scontro elettorale contro i socialisti di Zanardi era divisa al suo interno, debole e conscia della sconfitta che si prospettava all’orizzonte. Nella lotta elettorale intervennero nuovamente sia da Roma ma anche dal Vaticano. Per il governo, ora presieduto da Antonio Salandra, perdere il controllo di una città così importante come Bologna, sia dal punto di vista delle comunicazioni che dal punto di vista militare, sarebbe stato un grave colpo. Anche l’arcivescovo di Bologna Giacomo Dalla Chiesa, futuro papa Benedetto XV, si schierò contro la lista socialista; una presa di posizione che inficerà pesantemente i successivi rapporti fra comune e curia in città. “La sera prima delle elezioni, il prefetto Dallari inviò la consueta relazione a Salandra per comunicare che tutto era calmo in città e che l’esito sarebbe dipeso unicamente dall’affluenza alle urne e dal comportamento degli incerti. Sforzi miei e di tutti amici più influenti tendono appunto a scuotere e trascinare tale massa”. (PG 71) Qualcuno sperava ancora in un miracolo e che il risultato dello spoglio delle urne l’indomani smentisse il pronostico, favorevole alla lista di Zanardi. Mentre nelle stesse ore a Sarajevo Gavrilo Princip assassinava Francesco Ferdinando arciduca ereditario al trono imperiale d’Austria e sua moglie Sofie Chotek, si svolgeva la sfida elettorale bolognese. La città e i seggi erano strettamente sorvegliati da reparti di carabinieri, alpini e polizia. Tutto si svolse nella massima tranquillità. Mentre nel centro storico, dove risiedevano le classi abbienti, l’affluenza fu scarsa (il 40% a mezzogiorno), nei sobborghi operai le file ai seggi erano lunghe e l’affluenza altissima. Quando i seggi furono chiusi, alle ore 19.00, avevano votato 25.823 elettori sui 48.263 aventi diritto, che equivaleva ad un affluenza media del 53,50%. A tarda serata il prefetto Dallari scriveva già a Salandra che la partita era persa. Nel pomeriggio del 29 giugno uscirono i dati definitivi degli scrutini: la lista del P.S.I. di Zanardi aveva ottenuto 12.689 voti, quella dei clerico-moderati 11.370, la lista dei radicali 1.473. Francesco Zanardi era il nuovo sindaco di Bologna. Dei sessanta seggi in comune, il P.S.I. ne conquistava quarantotto. I dodici restanti andarono alla lista clerico-moderata. Nella lista clerico-moderata furono eletti due uomini che durante la Grande Guerra ebbero, per motivi diversi, una loro notorietà: Giacomo Ciamician e Giacomo Venezian. Il primo, di origine triestina, illustre chimico, fu uno degli inventori delle maschere antigas con le quali l’esercito italiano entrò in guerra, efficaci solo contro il cloro; erano le maschere che i soldati italiani che difendevano il San Michele il 29 giugno 1916 indossarono speranzosi che fossero efficaci. Speranza che fu vana. Circa 8.000 uomini furono messi fuori combattimento dall’attacco col gas fosgene progettato dagli austriaci. Venezian, anch’esso di origine triestina, fu uno dei primi caduti illustri di Bologna. Esponente del movimento irredentista, era un attivista politico nazionalista da molti anni. Classe 1861, dopo aver completato i suoi studi alla facoltà di giurisprudenza all’Università di Bologna, era poi diventato titolare della cattedra di Diritto Civile. Partito volontario all’entrata in guerra dell’Italia, cadde il 20 novembre 1915 durante un assalto alle trincee austriache a Castelnuovo del Carso.

La Bologna di Zanardi, il “sindaco del pane”

L’amministrazione socialista di Zanardi si insediò ufficialmente il 15 luglio del 1914. La sua Giunta era così composta: Nino Bixio Scota vice sindaco, Enea Alberti assessore all’economato, Demos Altobelli assessore alla polizia urbana, Ettore Bidone assessore all’igiene, Giorgio Levi all’Edilità ed arte, Mario Longhena all’istruzione, Luca Antonio Tosi-Bellucci al dazio e alle tasse, Oreste Vancini allo Stato civile e leva. Tutti uomini che Bologna celebra ancora oggi avendo loro intestato strade e scuole. Il programma dell’amministrazione Zanardi si poteva riassumere in due punti: scuole e regolamentazione dei consumi per mantenere i prezzi dei generi alimentari di prima necessità bassi e accessibili a tutti. Pane e alfabeto. Purtroppo c’era da considerare la condizione critica delle casse della città ereditata dai sindaci liberali precedenti. Il debito sfiorava i trenta milioni di lire. Se già la situazione poteva sembrare difficile, a peggiorare le cose arrivò il divampare della guerra in tutta Europa. La Prima Guerra Mondiale scoppiò il 28 luglio 1914, pochi giorni l’insediamento di Zanardi a Palazzo D’Accursio. Nonostante l’Italia fosse ancora un paese neutrale, le conseguenze economiche dello scoppio della guerra si fecero sentire fin da subito in tutto il paese, soprattutto con l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e di altri beni di prima necessità come il carbone. Quella in cui si trovò ad operare la nuova giunta fu da subito una situazione d’emergenza. La risposta più ovvia e immediata dell’amministrazione comunale fu un aumento delle tasse cittadine. Questo aumento non fu però una decisione scellerata che andava indistintamente a colpire ogni classe sociale. La Bologna di inizio secolo era una città dove imperversava l’evasione fiscale delle classi più abbienti e della fortissima lobby dei grandi proprietari immobiliari. Nei confronti di quest’evasione fu approvato un radicale giro di vite. Fu istituita una apposita commissione  per affrontare il problema case e proprietari immobiliari a Bologna. Soprattutto nel centro di Bologna, le condizioni igieniche delle abitazioni erano molto gravi, tanto che poco tempo prima, nel 1911, la città era stata colpita da un’epidemia di colera. Fu su questo che la commissione basò la sua azione. In venti giorni vennero visitate più di 4.000 abitazioni e rilevate decine di irregolarità igieniche ed edilizie. Fu imposta come soluzione la costruzione di water a cacciata e di un rubinetto in ogni appartamento. I proprietari che non avessero seguito questa regola si sarebbero trovati nelle condizioni di dover pagare multe salatissime. Per quanto riguarda l’impennata dei prezzi dei generi alimentari, il comune impose subito un calmiere. Altrettanto fecero tutti i comuni della provincia. Le iniziative comunali per combattere il carovita causato dalla guerra però non finirono qui. Il 28 agosto 1914 aprì, sotto il voltone di palazzo D’Accursio, il primo spaccio municipale per la vendita diretta di uva da tavola a 20 centesimi al chilo, quando il prezzo nei negozi cittadini era tra i 30 e i 35 centesimi. Insieme all’uva, nei giorni successivi, comparvero sugli scaffali dello spaccio  altri generi alimentari a prezzo ribassato: pane, farina, latte, mele e riso. L’intera spesa di allestimento dello spaccio di palazzo D’Accursio fu affrontata dalle casse comunali. Nel corso della guerra aprirono svariati negozi di questo genere. Nel 1920, quando ancora l’aumento dei prezzi non era cessato, erano ben ventuno, compresi una cantina, un bar, un ristorante e un grande forno comunale. Questi negozi furono ribattezzati dalla popolazione i “negozi Zanardi”. Il forno comunale, costruito nell’area tra via dei Mille (oggi via Don Minzoni) e via Marghera (oggi via Fratelli Rosselli), produceva 150 quintali di pane al giorno, che erano unicamente destinati ai negozi comunali. Questo pane comunale, per di più, non era uno di quei surrogati di crusca imposti dal governo per risparmiare sul grano: era un pane mangiabile che non differiva da quello che i bolognesi mangiavano prima della guerra. Questo era stato possibile grazie all’acquisto da parte del comune di scorte di oltre 5.000 quintali di farina direttamente dai fornitori. Altra importante iniziativa del comune riguardò il carbone. Anche in questo caso la soluzione architettata fu quella di andare a comprare il carbone direttamente dal fornitore. Per questo motivo il consiglio comunale approvò l’acquisto del piroscafo Jupiter, ribattezzato poi Andrea Costa, dalla Società anonima commerciale italiana di navigazione di Genova. Al 2 aprile 1916, l’Andrea Costa aveva già compiuto quattro viaggi trasportando oltre 20.000 tonnellate di carbone da vendere in città a prezzo calmierato nei negozi comunali. Grazie a questa trovata il prezzo del carbone di Bologna era il più basso d’Italia. Nonostante il turbinio di eventi che investirono la città e tutte le conseguenze che ne derivarono, il programma comunale di “pane e alfabeto” era tutt’altro che passato in secondo piano. Se per il “pane” la soluzione era stata trovata, anche per “l’alfabeto” i lavori proseguirono. Negli anni 1914-1919 le scuole per l’infanzia di Bologna triplicarono di numero, furono inaugurate scuole all’aperto, colonie scolastiche, refettori e doposcuola. Le scuole bolognesi poi si fecero promotrici di un programma di controllo sanitario sui bambini che le frequentavano. Ad esempio, in occasione dei molti casi di tracoma che si manifestarono a Bologna, il comune istituì una scuola provvisoria apposita per i bambini affetti da questo male. Isolati così dagli altri bambini e posti sotto controllo sanitario, guarirono presto ed evitarono il contagio. Il clima politico in città rimaneva rovente. La classe dei commercianti era furente con il sindaco e la sua giunta: l’apertura dei “negozi Zanardi” era stata vissuta come un vero e proprio atto di concorrenza sleale. Non mancarono anche gli incidenti di piazza. Già l’1 settembre 1914 Zanardi fu aggredito a bastonate per strada da ignoti. Fu il primo di una lunga serie di atti intimidatori e di violenza nei confronti del sindaco e dei suoi assessori. Una cosa però ormai era chiara: in caso di intervento in guerra da parte dell’Italia, Bologna era già preparata ad affrontare tutte le privazioni e le conseguenze nefaste di un conflitto. Nei mesi subito precedenti l’ingresso in guerra dell’Italia il paese fu animato dal grande confronto fra gli interventisti e i neutralisti. Nel 1914 Bologna poteva essere considerata una città neutralista. Non erano solo i socialisti a sostenere la neutralità del paese nel conflitto appena scoppiato, ma anche la borghesia e i commercianti che stavano vivendo sulla propria pelle i danni economici della guerra come il rialzo dei prezzi, potevano essere considerati neutralisti. La tendenza cambiò presto. Ogni classe politica vide nella guerra un proprio obiettivo: parte dei socialisti videro nel conflitto la possibilità di una rivoluzione a livello europeo senza precedenti. Eloquenti erano le parole di Benito Mussolini, socialista e direttore del giornale “Il popolo d’Italia”: “Quando a Berlino sventolerà la bandiera rossa, noi proletari italiani ci pentiremo di non aver partecipato a questa rivoluzione”. Dapprima a pensarla come Mussolini era solo una minoranza ristretta dei socialisti italiani. Ben presto i suoi sostenitori aumentarono di numero. I borghesi, gli industriali e i commercianti videro invece nella guerra un’occasione per incrementare le proprie entrate. Se la neutralità già permetteva di fornire armamenti e altri prodotti agli eserciti europei in conflitto, l’ingresso in guerra dell’Italia avrebbe fruttato milioni di lire in commesse direttamente da parte del governo e dell’esercito nazionale. L’entrata in guerra dell’Italia a fianco della triplice intesa, poi, si pensava che avrebbe fatto pendere il piatto della bilancia decisamente a favore di Francia, Inghilterra e Russia. Sarebbe stata quindi una guerra vittoriosa, e tutti speravano di beneficiare di questa grande vittoria. Bisognava quindi partecipare a questa guerra prima che si esaurisse poiché ancora si pensava che sarebbe stata una guerra breve. La speranza era potersi sedere al tavolo dei vincitori e spartirsi i profitti e i benefici della vittoria. Ovviamente a favore della guerra erano i nazionalisti, che a Bologna, nel disastro delle ultime elezioni comunali della coalizione clerico-moderata, avevano comunque una voce in consiglio comunale con due rappresentati eletti, di cui uno era Giacomo Venezian. Fin dall’agosto 1914 a Bologna erano state molteplici le manifestazioni popolari a sostegno della neutralità. Vi parteciparono anche Zanardi e altri esponenti socialisti della giunta comunale. Dall’ottobre 1914 però cominciarono a far sentire la propria voce anche i sempre più numerosi interventisti. L’11 novembre, il giorno del compleanno del re, il comune non espose, come era tradizione a palazzo D’Accursio, il gonfalone cittadino. Il gesto divenne causa di una feroce reazione da parte dei nazionalisti che, guidati da Dino Zanetti protestarono davanti al comune e davanti all’abitazione di Zanardi. I primi mesi del 1915 furono ricchi di manifestazioni e incidenti di piazza. Febbraio fu il mese più caldo. Il 21 febbraio i socialisti bolognesi organizzano una grande manifestazione al parco della Montagnola per ribadire la propria posizione: neutralità a qualunque costo. Gruppi di interventisti aggredirono i manifestanti e ne seguì un furioso parapiglia. In risposta a questa aggressione alcuni manifestanti socialisti occuparono il 23 febbraio palazzo dei Notai, di fianco al palazzo comunale, dove era in corso un comizio interventista. Anche in questa occasione ne scaturì una furiosa colluttazione che cesserà solo con l’intervento della polizia. Molti sono i fermati, soprattutto fra i socialisti. Fra le carte del Casellario politico di Bologna, uno dei fascicoli risulta aperto il 23 febbraio. Lo schedato, tale Vacchi Amleto, classe 1890, residente in via Schiavonia 13, era stato sorpreso dalla polizia all’angolo con via D’Azeglio a lanciare sassi sulla folla dei manifestanti interventisti accorsa ad assistere al comizio di palazzo dei Notai. Fu subito  tratto agli arresti e condannato a 25 giorni di carcere e a 85 lire di multa. Questo atto gli costò l’iscrizione al Casellario Politico Provinciale, con tutte le conseguenze che ne seguirono: 15 anni di sorveglianza, interrogatori e perquisizioni. Lo scontro di piazza si riaccese a maggio. Il 14, palazzo D’Accursio fu oggetto di una nuova manifestazione violenta degli interventisti contro il sindaco e la sua giunta. In risposta la direzione nazionale del PSI e la segreteria della CGdL si riunirono proprio a Bologna e invece che proclamare lo sciopero generale più volte invocato, organizzarono per i giorni successivi un fitto calendario di comizi a partire dal 19. Nessuno immaginava che cinque giorni dopo il paese si sarebbe trovato in guerra. Dal 24 maggio, giorno dell’entrata dell’Italia nel primo conflitto mondiale, le manifestazioni e i comizi contro la guerra furono vietati con un’ordinanza del governo. Il 23 maggio, quando la dichiarazione di guerra divenne pubblica, gli interventisti si resero protagonisti dell’ultima provocazione. Indisturbati e non contrastati dalla polizia assalirono palazzo D’Accursio, gridando slogan contro il sindaco e a favore del conflitto contro l’Austria Ungheria per Trento e Trieste.

Bologna, la grande retrovia italiana

Fin dall’inizio delle ostilità Bologna fu posta sotto il diretto controllo dell’esercito. Il ruolo centrale del suo snodo ferroviario, del suo polo ospedaliero e delle sue industrie era troppo importante per lo sforzo bellico italiano. La città fu amministrata dai militari come se fosse in zona di guerra. Divenne la vera e propria grande retrovia italiana. L’importanza strategica di Bologna era assolutamente nota anche al nemico. Anche se in generale l’aeronautica era agli albori, molti dei belligeranti la utilizzarono oltre che per osservare le posizioni avversarie anche per sporadici bombardamenti su punti salienti della produzione industriale nemica. Gli austriaci colpirono città come Padova, Brescia, Treviso, Venezia e Ancona e fecero raid aerei su molte altre località. Di conseguenza a Bologna si diffuse presto la paura dei bombardamenti nemici. Furono presi provvedimenti per la messa in sicurezza dei monumenti della città, quali il Nettuno, la porta di Jacopo della Quercia di San Petronio, la Madonna di Niccolò dell’Arca, le tombe dei glossatori e molti altri, ingabbiandoli in strutture protettive di sacchetti di sabbia. Per avvisare del possibile arrivo di aeroplani nemici, due pompieri furono posti ventiquattro ore su ventiquattro sulla cima della Torre degli Asinelli: erano provvisti di mortaretti che avrebbero dovuto far scoppiare in caso di pericolo per avvisare i campanari delle chiese del centro che avevano il compito di dare l’allarme suonando ripetutamente le campane. Il 29 settembre 1917 fu lanciato l’unico allarme aereo. Via telefono le autorità cittadine erano state avvisate che una squadriglia austriaca aveva varcato il Po e si stava dirigendo verso Bologna. Fortunatamente i velivoli furono respinti dalla contraerea all’altezza di Pontelagoscuro, vicino a Ferrara. Già in tempo di pace a Bologna avevano sede vari comandi e reparti e in città circolavano parecchi soldati di diverse armi. Durante la guerra la quantità di militari a Bologna crebbe vistosamente. L’importanza dello snodo ferroviario bolognese ne faceva una tappa obbligata per quasi tutte le tradotte fitte di soldati e i treni merci carichi di materiale che venivano e andavano in meridione da e verso il fronte. Questo aumento dei soldati che transitava per Bologna costrinse l’amministrazione militare a requisire diversi stabili in tutta la città per farne ricoveri per truppa. Ad esempio, gli alloggi dei frati della chiesa di San Giuseppe in zona porta Saragozza fu totalmente adibita ad alloggi per soldati in partenza per il fronte. Fu aperta nel giugno 1915 in via San Vitale 40, in pieno centro storico, una “Casa del Soldato”, dove si svolgevano concerti e spettacoli per militari feriti, in licenza o di passaggio. In questa “Casa del Soldato” era anche disponibile un centro di assistenza legale per soldati. In città arrivavano anche molti treni carichi di feriti. Bologna era infatti un rinomato polo ospedaliero italiano. Tutta l’Emilia Romagna ad inizio secolo era nota per i suoi ospedali in tutta Italia, e fu probabilmente la regione più attiva per la cura dei soldati feriti o ammalati durante la guerra. Oltre agli ospedali bolognesi, furono fondamentali anche le strutture di Modena, Parma, Ferrara e Reggio Emilia. Particolarmente toccante e unica nel suo genere è la storia dell’ospedale Rizzoli di Bologna, specializzato in cura dei mutilati. Oltre alla cura dei soldati, collegata alla realtà ospedaliera del Rizzoli, c’erano un’officina ortopedica per la creazione di arti finti fra le migliori d’Italia e la Casa di Rieducazione per Mutilati ed invalidi di guerra. Per gestire al meglio questa struttura nacque un Comitato bolognese per l’assistenza agli invalidi di guerra. Ne assunse la carica di presidente l’ex sindaco Giuseppe Tanari. Sia le officine del Rizzoli che la Casa di Rieducazione furono sostenute da generose donazioni dell’amministrazione comunali e dei privati cittadini. “Bologna, patriottica e generosa, non doveva essere seconda a nessun’altra città nell’assolvere il doveroso tributo di riconoscenza e di affetto verso le gloriose vittime della guerra”, diceva Dino Zucchini, presidente della Casa di Rieducazione. Grazie alla collaborazione con autorità civile e militare, la struttura trovò una sede in un convento di suore situato nel Foro Boario, oggi Piazza Trento e Trieste, che l’esercito aveva requisito ad inizio del conflitto per farne alloggi per soldati. “Nell’Istituto Rizzoli i mutilati ridiventavano uomini; ma ciò non era sufficiente: bisognava farli ridiventare lavoratori”. Nella Casa di Rieducazione i soldati venivano rieducati ad essere produttivi anche se mutilati e avviati a lavori quali il tornitore, l’intagliatore, l’intarsiatore, il calzolaio, il cestaio, il sarto, il dattilografo, il telegrafista, l’allevatore di conigli e bachi da seta. Ogni mutilato dimesso dal Rizzoli aveva diritto ad almeno quindici giorni di rieducazione gratuita. I “rieducati” alla fine della guerra furono oltre 1200. La Casa di Rieducazione, nonostante gli ottimi risultati raggiunti, chiuse i battenti nel 1922. Per sopperire alla penuria di posti letto ospedalieri, sulla strada della Beverara, fuori Porta Lame, venne costruito un edificio provvisorio a sette padiglioni destinato ad ospitare soldati feriti ed ammalati, noto come “il Baraccato”. Capace di 850 posti, al termine del conflitto diventerà rifugio per immigrati sfollati dalle zone di guerra, fu uno dei luoghi d’azione del giovane don Olinto Marella. A Bologna aveva sede anche l’ufficio centrale della censura postale militare. Un’altra controprova del ruolo centrale attribuito dai militari a Bologna. Sebbene fosse a trecento chilometri dalla linea del fuoco, era la vera e propria retrovia pulsante del fronte. Alla stazione di Bologna arrivavano quindi ogni giorno treni carichi anche di lettere e cartoline da e per il fronte. “La media giornaliera della corrispondenza, che nel maggio-giungo 1915 era di 1.600.000 unità (di cui 700.000 dal paese e 900.000 dall’esercito), passò già nell’agosto a due milioni (di cui 1.200.000 dall’esercito). In quanto sede militare di un corpo d’armata dell’esercito italiano a Bologna affluirono anche un certo numero di prigionieri austriaci. Ogni corpo d’armata infatti aveva a carico il destino dei propri prigionieri. Era incarico delle burocrazia militare provvedere alla loro sistemazione. Secondo quanto ordinava la circolare del 30 maggio 1915 a firma del sottocapo di stato maggiore Carlo Porro, “essi, dopo la cattura, dovevano essere condotti a distanza di sicurezza dal fronte, sorvegliati e rifocillati. Il loro numero diviso tra ufficiali e truppa, andava comunicato al comando di corpo d’armata che disponeva per il concentramento nelle retrovie”.  Al VI corpo d’armata con sede a Bologna, fino al gennaio 1917, furono affidati 69 ufficiali prigionieri e 1057 soldati di truppa. Questi furono ripartiti in varie zone protette, a Carpi, Cento, Guastalla, Cesena e negli ospedali di Bologna, Rovigo e Ferrara. In generale, comunque, transitarono e sostarono a Bologna molti più di un migliaio di prigionieri, sempre a causa del ruolo centrale dello scalo ferroviario cittadino. Curioso e un po’ grottesco è un episodio che avvenne nel luglio 1916 proprio a Bologna che vide protagonisti dei prigionieri austriaci. Nella notte del 15 luglio 1916 giunse alla stazione un treno con 700 prigionieri austriaci. Ad imitazione di quanto si dice avvenga nei paesi nemici, viene deciso di far passare i prigionieri per il centro di Bologna scortati dai carabinieri e dai bersaglieri. Una grande folla silenziosa assiste al loro passaggio. La condotta dei cittadini ammutoliti fu cavalleresca, quasi fosse stato concesso ai prigionieri l’onore delle armi. Di certo le autorità che avevano deciso questa simbolica sfilata non si aspettavano una reazione così fredda, triste e composta. I prigionieri furono poi fatti proseguire in treno per Ancona e l’esperimento mai più riproposto. A causa della contingenza bellica la manodopera era cresciuta vertiginosamente di prezzo e molte opere e cantieri non potevano essere completati, il Consorzio della Bonifica Renana chiese al governo la disponibilità di prigionieri di guerra, da impiegare per lavori di bonifica nelle paludi esistenti tra Bologna e Ferrara. Benché una circolare del Ministero considerasse l'uso dei prigionieri un espediente eccezionale e nonostante la dura opposizione dei braccianti, per i quali i lavori di bonifica erano una valvola di sicurezza contro la disoccupazione, gli agrari ottennero in prestito duemila prigionieri austriaci. Di certo i prigionieri austriaci che soggiornarono in Emilia Romagna furono più fortunati dei loro commilitoni reclusi all’Asinara. Un altro motivo per il quale i militari avevano deciso di avere in pugno l’amministrazione della città di Bologna erano le sue importanti industrie utili per lo sforzo bellico. Due su tutte: le Officine Maccaferri di Zola Predosa che sebbene in precedenza fabbricassero reti metalliche e gabbioni per il contenimento degli argini dei fiumi, ora avevano convertito la produzione in filo spinato, e le Officine Casaralta. In questo stabilimento si produceva carne in scatola destinata alle truppe al fronte: ogni giorno vi venivano macellati circa 150 bovini, il che consentiva la confezione di 200.000 scatolette e migliaia di porzioni di dadi da brodo e condimenti per minestra. Solo in queste due fabbriche lavoravano oltre 2.000 operai militarizzati.

L’amministrazione Zanardi e il conflitto

Il passaggio di consegne da potere civile a poter militare non significò però che il sindaco e la sua giunta avevano perso l’incarico di guida della città. Tutt’altro. Zanardi rimase al suo posto e continuò le sue iniziative benefiche nei confronti della cittadinanza bolognese più bisognosa. Zanardi divenne proprio durante gli anni della guerra il “sindaco del pane”. Per di più Bologna fu una delle città che più si adoperò per i profughi sfollati dalle zone di guerra o occupate dal nemico dopo la rotta di Caporetto. Nonostante la paura da parte del governo di possibili sollevazioni e tumulti nelle città socialiste, soprattutto Bologna e Milano, fino al 1917, con la “rivolta del pane” di Torino, non vi furono di questi episodi in tutt’Italia. “I socialisti al governo delle amministrazioni locali, lungi dal comportarsi come forze anti-Stato, assumono un atteggiamento collaborativo, rinviando al dopoguerra la lotta politica e potenziando gli interventi sul piano economico, sociale e dell’assistenza ai civili.” Era la linea politica dettata dal segretario del partito Costantino Lazzari nei confronti del conflitto: “né aderire né sabotare”. Nonostante la linea politica perseguita dal comune fosse neutralista, i socialisti bolognesi risposero positivamente alla chiamata alle armi. Molti furono i volontari. Dei 2400 iscritti nel periodo della guerra, ben 800 servirono sotto le armi. Anche nella giunta comunale stessa vi furono molti consiglieri e assessori che partirono per il fronte. I 48 consiglieri comunali divennero ben presto 30. Come volontario partì anche Demostene Altobelli detto Demos, capo dell’ala rivoluzionaria del Partito socialista bolognese, assessore alla polizia urbana e Amato Festi, anch’esso consigliere e fondatore nel 1946 e primo presidente fino al 1951 di Confcommercio. Anche fra i consiglieri comunali vi furono dei caduti. Caddero sulla linea del fuoco Luca Antonio Tosi Bellucci, classe 1883, artigliere, assessore al dazio e alle tasse, caduto a Sagrado il 7 luglio 1916, e Fernando Fortuzzi, classe 1886, soldato nel 7° fanteria, brigata Cuneo, morto per ferite nell’ospedale militare di Udine il 4 dicembre 1916. La spaccatura all’interno del partito socialista fra interventisti e neutralisti si può constatare anche da queste cifre. Del consiglio comunale poi faceva parte anche per l’opposizione Giacomo Venezian, classe 1862, volontario di guerra, maggiore nel 121° fanteria brigata Macerata, che cadde il 20 novembre 1915 a Castenuovo del Carso. A quest’ultimo fu concessa anche la medaglia d’oro al valor militare. Le iniziative benefiche che il comune aveva intrapreso nei mesi della neutralità italiana dimostrarono veramente la loro utilità nel periodo di guerra, ed anzi, confermarono la lungimiranza della giunta Zanardi. Durante gli anni di guerra la crisi dei prezzi, come era immaginabile,  si acuì ancor di più che nel 1914. “Nel paese il potere d’acquisto dei salari diminuiva di giorno in giorno. Facendo uguale a 100 il potere d’acquisto dei salari nel 1913, è stato calcolato che esso si ridusse a 74 nel 1917 e addirittura a 64 nel 1918”. [2] La riduzione del traffico marittimo e ferroviario, la minore produzione interna e l’enorme consumo dell’esercito avevano provocato la rarefazione di molti beni essenziali. Generi di prima necessità cominciavano a scarseggiare. Gli aumenti dei prezzi erano non graduali e imprevedibili. Merci, vendute per lungo tempo a prezzi invariati, improvvisamente rincaravano senza alcuna apparente spiegazione, oppure, più semplicemente, sparivano dalle vetrine e venivano vendute sotto banco a prezzi assai più cari. Lunghe code cominciavano a formarsi davanti ad ogni negozio di alimentari. Per certi beni furono distribuite le tessere annonarie. Per ridurre il disagio dovuto alla scarsità di zucchero, lo Stato provvide a mettere in commercio lo zucchero saccarinato, detto appunto lo zucchero di Stato. Il ministro Bianchi consigliò, per sopperire alla mancanza di dolcificanti, l’allevamento casalingo di api. Per limitare il consumo di carta, i giornali, già ridotti normalmente a quattro pagine, dovettero uscire parecchie volte al mese su due sole facciate, a caratteri microscopici. Non scarseggiavano solo generi alimentari, dunque, ma anche il carbone. E quel poco che arrivava nei porti era per la maggior parte destinato alle industrie per lo sforzo bellico. Naturalmente quel che era regola per i molti, non valeva per i profittatori di guerra ed i ricchi. Per essi non esistevano né le limitazioni dei consumi né le lunghe code. In tutte le città italiane dilagava il mercato nero. Anche Bologna fu investita da questa profonda crisi generatrice di miseria. Nei mercati e nei nelle botteghe private  i prezzi divennero altissimi. “Dal 1914 al 1916 erano cresciuti del 23,41% a Roma, del 25,67% a Milano e del 61,46 a Bologna. In percentuale l’aumento era certamente notevole, anche se minore in senso assoluto. Ciò dipendeva dal fatto che prima della guerra il costo della vita a Bologna era basso.” Zanardi, per affrontare questa emergenza, continuò con la sua strategia: i negozi comunali con merci a prezzi ridotti. Alla fine della guerra i “negozi Zanardi” furono ben ventuno e rimasero aperti ben oltre la fine del conflitto, per aiutare la popolazione a smaltire gli ultimi strascichi della miseria provocata dalla guerra. Addirittura vennero ripristinati durante la Seconda Guerra Mondiale dal podestà di Bologna ed aumentati a ventitre. Nei negozi si trovavano in vendita a prezzi calmierati farina, pane, riso, latte, pesche, uva, conserva di pomodoro, forme di parmigiano vecchie di primissima qualità, carne di bassa macelleria. Erano in vendita anche generi non alimentari, quali carbone e legna da ardere. Nell’agosto 1916 fu fondato un apposito ente per la gestione dei negozi comunali, l’Ente Autonomo dei Consumi, meglio noto come Eac. Grazie ai “negozi Zanardi” Bologna durante la Grande Guerra non conobbe la fame né il freddo, né soprattutto le sommosse contro il carovita di altre città italiane. Il comune inoltre provvide ai rifornimenti alimentari, soprattutto di pane, per le famiglie dei richiamati. Vennero organizzati anche appostiti campi solari per i figli dei soldati bolognesi al fronte. Non mancarono in tutta la città comunque tumulti dei nazionalisti e degli interventisti contro l’amministrazione comunale. In occasione della presa di Gorizia, il generale Luigi Capello, comandante del VI corpo d’armata vittorioso il corpo d’armata di Bologna, inviò un telegramma al sindaco Zanardi, collegando l’evento alla cacciata degli austriaci da Bologna, l’8 agosto 1848. In città la vittoria e il telegramma di Capello divennero un’occasione per un tumulto nazionalista, contro il comune neutralista. Palazzo D’Accursio venne preso nuovamente d’assalto, come ormai era diventata consuetudine durante questi tumulti. Si tratta del secondo assalto alla sede comunale. Questa volta però le forze dell’ordine non lasciarono deliberatamente passare gli assalitori e resistettero. Probabilmente non avevano gradito la risposta telegrafata di Zanardi al telegramma di Capello accusandolo di riaffermare i sentimenti irriducibilmente neutralisti del partito che lo aveva mandato al potere. La risposta di Zanardi recitava: “Popolo di Bologna, memore sue tradizioni, accoglie nobilmente e lietamente notizia conquista di Gorizia, nell’anniversario data gloriosa otto agosto, per virtù del Sesto corpo d’armata che conta molti nostri cittadini, valorosi per generosa dedizione al dovere, e trae dalla grande vittoria sicuro auspicio di prossima e giusta pace”. Come ha scritto il deputato socialista Giovanni Zibordi, nella regione, ma anche altrove, "La notizia di una sconfitta, come quella di una vittoria, valeva del pari a dare il pretesto di una dimostrazione contro il Comune rosso, cioè contro il pubblico potere tenuto dal proletariato"

Il 1917, annus horribilis

La rotta di Caporetto inasprì in maniera esasperata il clima di tensione interno al paese. Se fino a quel momento aveva retto il compromesso basato sulla parola d’ordine del segretario del partito socialista Lazzari “né aderire né sabotare”, da Caporetto in poi i militari e il governo addossarono tutta la colpa della sconfitta militare alla presunta dilagante propaganda socialista che proliferava all’interno del paese e che aveva contaminato ora anche l’esercito. Per il capo di stato maggiore dell’esercito italiano Luigi Cadorna questo era fin dall’inizio del conflitto un punto fondamentale. L’esercito al fronte e il fronte interno non dovevano avere la benché minima influenza l’uno sull’altro.

Diserzioni, indisciplina e ammutinamenti – e in generale tutto il malessere sempre più evidente nell’esercito – secondo Cadorna erano da ricondurre esclusivamente all’influenza nefasta che il paese aveva sui soldati; questa si sarebbe sviluppata sia attraverso i contatti dei militari con i familiari – e infatti per questo motivo fino all’ultimo anno di guerra furono limitate al massimo le licenze, e fu sottoposta a un sempre più rigido controllo la corrispondenza – sia soprattutto attraverso la propaganda delle idee pacifiste e socialiste che, sempre secondo Cadorna, avendo libero corso nel paese, si erano diffuse tra i soldati. [3]

Il Generale Luigi Cadorna

Il Generale Luigi Cadorna

Scriveva Cadorna nel giugno 1917 al Presidente del Consiglio Boselli: “Non soltanto la Sicilia è fonte di velenosa propaganda contro la guerra e contro il dovere militare (NOTA SULLE DISERZIONI E LE RENITENZE IN SICILIA vedi GIBELLI); anche altrove, in Toscana, Nell’Emilia, in Romagna, nella stessa Lombardia, si seminano con arte malvagia le teorie antipatriottiche, e nelle truppe di complemento che giungano dal Paese come nei militari che ritornano dalla licenza si manifestano gravi sintomi di indisciplina che hanno richiesto le più energiche misure di repressione perché il male non dilaghi.” Nella lunga lettera continuava giustificando la decimazione come unico mezzo per contrastare il diffondersi fra le truppe del “veleno che esse attingono dai contatti col Paese.” Concludeva poi dicendo: “Poiché è inutile che io dica e provi alla E.V. che l’indisciplina che minaccia di corrompere la compagine dell’esercito nostro deriva e dipende dalla tolleranza con cui si lasciano impunemente diffondere nel Paese le più perverse teorie dei nemici interni; mentre siamo in tempo di guerra il regime disciplinare all’interno  non è rispondente alle esigenze del momento, ed i mezzi di repressione attuali in zona di guerra sono sterili se non trovano rispondenza e tutela in un’azione energica, svolta con fermezza e costanza nel resto del territorio dello Stato.” Il clima di collaborazione tra potere civile e potere militare che si era venuto a creare in città come Bologna non poteva più resistere a lungo. I socialisti erano visti ovunque e indissolubilmente come nemici della guerra e quindi come traditori del paese. Le rivolte che scoppiavano in tutto il paese e soprattutto la disfatta di Caporetto rafforzarono questa convinzione. La risposta delle autorità non poteva più avere una natura di compromesso. A Torino, luogo della più importante rivolta popolare della Grande Guerra in Italia, la cosiddetta “rivolta del pane”per la mancanza di farina e pane per diversi giorni in città, “la repressione fu durissima e alla fine ebbe ragione della rivolta. In qualche caso le autoblindo scaricarono raffiche di mitragliatrice sulla folla in fuga. Secondo i calcoli più attendibili, le vittime tra i dimostranti furono circa 50, i feriti oltre 200, gli arrestati quasi 900. Molti operai furono inviati al fronte. [-] La classe dominante provò orrore e paura per il potenziale di insofferenza e di insubordinazione che covava tra le masse. Gli interventisti interpretarono l’insurrezione come l’ennesima prova di disfattismo e di tradimento della causa nazionale, reclamando dal governo una condotta più energica e un’azione repressiva più dura contro i nemici interni.” Scrisse un interventista nel suo diario: “In quella porca città giolittiana e neutralista, si è tentata la rivoluzione perché è mancata un giorno la farina. Sante mitragliatrici!”[4] Il giro di vite dei provvedimenti fu durissimo ovunque. Se al fronte c’era la caccia al disertore, al vigliacco e all’insubordinato, nelle città le autorità avevano aperto la caccia al disfattista. Disfattismo: attività di chi, in tempo di guerra, cerca con mezzi diversi di indebolire il proprio paese così da favorirne la disfatta. Questa è la definizione che ne da Tullio De Mauro  nel suo Dizionario della lingua italiana, edizione Paravia, 2000.

Il termine appare più funzionale d’altri nel mantenere sotto giudizio e in stato d’allarme, proprio perché più comprensivo e dilatabile: ribelle, rivoltoso, rivoluzionario e simili varrebbero a indicare tutt’al più uno solo dei grandi campi del rifiuto allo zelo preteso dagli spiriti della vigilia. Quella classe dirigente trasversale e al di là delle tradizionali divisione fra destra, centro e sinistra che è il partito della guerra [-] intende perpetuare il sospetto non solo nei confronti dei socialisti – che pur rimangono i primi della lista, come nemico interno – ma anche contro Giolitti, i politici e i funzionari giolittiani, il neutralismo cattolico, le inerzie o connivenze governative, le disfunzioni colpevoli degli apparati, i cedimenti ai richiami di pace di qualunque parte provenienti – Germania, Vaticano, Russia.[5]

La linea neutralista che la giunta di Bologna aveva sempre sostenuto fino dal 1914 fece sì che l’intero   comune fosse bollato come “covo di caporettisti”. In trenta province italiane, tra le quali Bologna, fu vietata la diffusione del giornale “L’Avanti”, organo di stampa ufficiale del partito. Anche periodici locali come “La Squilla” e “La Lotta” subirono pesantemente la censura, potendo pubblicare solo appelli di solidarietà per i profughi. Vennero inaspriti anche i controlli di polizia. Le schedature nel Casellario Politico Provinciale aumentano. Se nel biennio 1915-1916 i reati registrati erano soprattutto relativi a giovani renitenti alla leva, che manifestavano il loro rifiuto alla guerra, nel 1917 comparvero casi di disfattismo nei confronti di cittadini comuni. E’ il caso di Roda Arturo, classe 1900 di professione macellaio, residente in via Belmeloro 9, che in un negozio di tabacchi di via Orefici disse ad una donna che gli austriaci erano migliori degli italiani perché non lasciavano morire di fame la propria popolazione. Un avventore del negozio lo denunciò ad una guardia che lo arrestò. Fu condannato poi a due mesi di carcere. Caso simile è quello di Borghi Alberto, classe 1886, facchino, residente in via Ferrarese 107, che in un’osteria in località Dozza fu sentito da un carabiniere in borghese dire frasi di natura disfattistica, incitando i presenti a “fare la rivoluzione” come a Torino. Borghi fu condannato a due settimane di carcere. Si tratta di due casi emblematici e non isolati. Per contribuire allo sforzo bellico non si era esitato minimamente a condizionare la libertà di pensiero e di parola nel paese. Un precoce esempio di quello che sarebbe accaduto nel secondo conflitto mondiale. Come si nota da questi due casi riportati dal Casellario Politico Provinciale, i cittadini furono incitati allo spionaggio, messi l’uno contro l’altro. Nel dicembre 1917 ci fu un nuovo e violentissimo assalto a Palazzo D’Accursio. A stento il cordone di polizia riuscì a trattenere i manifestanti dal linciare Zanardi e il suo seguito. Così racconta quell’assalto Dino Zanetti, interventista della prima ora, futuro squadrista fascista: “Un gruppetto di mutilati e di studenti travolge il rinforzo di guardia al portone municipale ed entra nel cortile tumultuosamente. Gli studenti sono con noi. Si agitano, avanzano, travolgono. Tentativi di resistenza, botte da orbi e vetri in frantumi. Zanardi è pallido in volto. Tutto il gregge socialista di palazzo D’Accursio si è ritirato negli uffici. Non si sa mai…” La caccia al disfattista, al socialista al neutralista non si risolve solo con assalti al palazzo comunale. Anzi, probabilmente la sede del comune era uno dei posti più sicuri per i membri della giunta comunale, sorvegliato dalla polizia. Si susseguirono agguati per le strade, nelle case private. Il clima era diventato rovente. Furono tentate anche vie legali per attaccare il comune e i suoi rappresentanti. Nel 1917 il sindaco dovette comparire davanti al Tribunale militare per rispondere di tutta una serie di accuse che anonimi calunniatori avevano inviato ai magistrati con le stellette. Assolto Zanardi, i calunniatori ci provarono con l'assessore all'istruzione Mario Longhena, accusandolo di fare propaganda contro la guerra durante le lezioni all'Istituto per ragionieri dove insegnava. Longhena si autosospese e chiese la nomina di una commissione, la quale arrivò "a conclusioni negative, non essendo risultato alcun fatto che potesse valere come prova alla consistenza dell'accusa". Con la disfatta di Caporetto si presentò però per tutta Italia un nuovo grande problema. Dalle zone occupate dal nemico, si riversarono nel paese oltre 300.000 profughi. Bologna, essendo la città di retrovia più grande vicina al fronte, ormai attestatosi sul Piave, fu nuovamente nell’occhio del ciclone. Zanardi offrì immediatamente ospitalità ai profughi. Solo a Bologna ne arrivarono quasi 20.000. Per accoglierli furono adibite a ricovero le sale cinematografiche. In breve sorsero due strutture di accoglienza nei locali del Collegio Venuroli in via Centotrecento e presso l’Istituto scolastico dei Salesiani fuori porta Galliera. Le conseguenze di questo aumento di popolazione furono ovvie. I generi alimentari scarseggiarono ed il comune fu costretto ad introdurre le tessere annonarie. Inoltre i prezzi degli affitti andarono alle stelle. L’ulteriore vicinanza del fronte fece tornare il timore di incursioni aeree. La statua del Nettuno, già ingabbiata in un’apposita struttura protettiva fin dall’entrata in guerra, fu trasportata nei sotterranei di Palazzo D’Accursio. Tornò al suo posto solo nell’ottobre 1919.

L’epilogo della vittoria

Il 1918 continuò sulla falsariga della seconda metà del 1917. Ad aggravare la situazione fu l’epidemia di febbre spagnola che colpì tutto il paese. Anche a Bologna vengono presi provvedimenti: le misure precauzionali riguardano la limitazione degli affollamenti, con la chiusura delle scuole, dei teatri ed il divieto di fiere e mercati. Un provvedimento davvero difficile da rispettare in una città così affollata di soldati, operai e profughi. La violenza rimaneva al centro della vita politica della città, quasi come se fosse l’unica via di confronto fra le parti. Il 19 maggio al teatro comunale di Bologna fu inaugurata la bandiera dell’Associazione bolognese Mutilati e Invalidi di Guerra, che era una delle realtà pulsanti della corrente interventista della città. Il discorso ufficiale fu tenuto da Benito Mussolini. All’uscita dal teatro il corteo interventista si diresse verso il palazzo comunale. Vi fu un nuovo tentativo di assalto al palazzo comunale. Fra gli interventisti impegnati ad assaltare il palazzo comunale c’era oltre al sempre presente Dino Zanetti pure il pittore futurista Guglielmo Sansoni, in arte Tato, classe 1896, bolognese di nascita, in licenza dal fronte. Poco più di un mese dopo lo scontro si riaccese. Gli interventisti occuparono Piazza 8 agosto il 16 giugno 1918 per impedire ai socialisti di tenere una manifestazione patriottica autorizzata dal prefetto e dalle autorità militari  per onorare coloro che "seppero morire dissentendo". Quando giunsero nella piazza, i socialisti ebbero la sgradita sorpresa di trovare il palco occupato da numerosi mutilati in divisa militare. Dino Zanetti ha scritto che lui e i suoi commilitoni erano "pronti a tutto: a menare le mani e peggio". Per non avere uno scontro con i mutilati, i socialisti abbandonarono la piazza. Inutile dire che i militari , non erano tutti mutilati, salirono sul palco e cantarono vittoria dando vita ad un comizio contro il comune “covo di caporettisti”. L'ultimo scontro si ebbe il primo giorno di pace. La sera del 3 novembre 1918, quando in città si sparse la notizia che era stato firmato l'armistizio, gli interventisti invasero Palazzo d'Accursio, nonostante l'amministrazione avesse fatto esporre al balcone il Gonfalone municipale per esprimere la soddisfazione della città. Verso sera, quando al balcone di Palazzo d'Accursio si presentarono il comandante del presidio militare Luigi Segato e Zanardi gli interventisti cominciarono a urlare e a fischiare facendo di tutto per impedire al sindaco di parlare. A gran voce chiesero le sue dimissioni, producendo anche un documento ufficiale con la richiesta da inoltrare al prefetto e alle autorità militari. La mattina dopo, gli interventisti, guidati da Dino Zanetti, occuparono la piazza aspettando che i consiglieri comunali e il sindaco si recassero a Palazzo D’Accursio. Quando questi arrivarono scoppiò un feroce tumulto nel quale Zanardi subì un duro attacco fisico. Si trattò del secondo agguato a Zanardi durante la sua carica di sindaco di Bologna. Nel pomeriggio la violenza proseguì: un gruppo di militari armati assalì la sede della Camera del lavoro in via Cavaliera 20, oggi via Oberdan. I lavoratori presenti all’interno della Camera resistettero e si generò una rissa. Ancora una volta Dino Zanetti era a capo del gruppo. Descrisse così l’avvenimento nelle sue memorie: "Picchiammo però di santa ragione e poiché volò per l'aria qualche pugnale, gli eroi volsero in fuga senza accettare il conflitto".  La violenza che caratterizzò quegli anni era un presagio sinistro per gli anni a venire. I reduci scontenti degli esiti della vittoria, i mutilati, gli interventisti delusi, saranno i fondatori dei Fasci da Combattimento mussoliniani, che avevano come marchio di fabbrica la violenza: manganello e olio di ricino. Le gravi conseguenze politiche erano dietro l'angolo e si sarebbero manifestate molto presto in tutta la loro drammaticità.  La guerra era finita, ma il ruolo e il contributo di Bologna per essa non ancora. L’armistizio comportò la smobilitazione di tutto l’esercito ma anche il rimpatrio dei prigionieri di guerra italiani internati nei territori degli Imperi Centrali. Scriveva Vittorio Emanuele Orlando a Diaz il 15 novembre 1918, quando il problema del rimpatrio si fece pressante: “Trattasi di quattrocentomila  uomini (in realtà i prigionieri italiani che rientrarono in patria furono circa 270.000) che poi si spargeranno in ogni parte del paese e dipende da noi farne apostoli di patriottismo o germi di dissolvimento”. Il timore era che diffondessero idee sovversive era alto. La paura delle autorità era che i prigionieri potessero essere dei disertori impregnati della propaganda disfattista e sovversiva socialista che tanto temeva Cadorna, che rientrati in patria avrebbero provveduto a divulgare, contagiando con il loro “veleno” il resto della popolazione. Questi soldati, al pari di mutilati e invalidi, andavano rieducati prima di essere reinseriti in società.

[1] P. Brunello, Storie di anarchici e di spie, Donzelli, Roma 2009 p.X-xiv

[2] A. Gibelli, La Grande Guerra degli Italiani, BUR, Milano, 1998, p. 216

[3] G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p. 22

[4] S. D’Amico, La vigilia di Caporetto, Diario di guerra, Giunti, Firenze, 1996, p. 234

[5] M. Isnenghi, G. Rochat, La Grande Guerra 1914-1918, Il Mulino, Bologna, 2008, p.333

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