SAVERIO MIRIJELLO

Saverio Mirijello è nato a Vicenza nel 1969. Pubblicista dal 1992 ha collaborato con diverse testate locali e regionali, agenzie di stampa e web radio. Ricercatore storico ha tenuto diverse conferenze in Italia e all'estero riguardo la Grande Guerra e il periodo del Risorgimento. Ha effettuato uno studio completo sulla figura dell'eroe garibaldino Domenico Cariolato (1835-1910) pubblicando poi "IL SOLDATO FANCIULLO E GARIBALDI - Domenico Cariolato, uno dei Mille e la storia della sua amicizia con l'Eroe dei Due Mondi" nel numero speciale della "Rivista Storica del Risorgimento" in occasione del bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi. Fra le sue molte pubblicazioni, ha curato inoltre "CON IL CUORE VERSO DIO - Intuizioni profetiche di Albino Luciani" utilizzato dalla testata giornalistica "La Grande Storia" di Rai 3 nel 2005 per la produzione di un documentario sul pontificato di Giovanni Paolo I. Su Amazon ha pubblicato gli e-book "AMARE DIO E' UN VIAGGIO MERAVIGLIOSO - I 33 giorni di Papa Luciani" e "IL SOLDATO FANCIULLO E GARIBALDI - Domenico Cariolato e il Risorgimento vissuto a fianco dell'Eore dei Due Mondi". Ha partecipato al Convegno di Cesuna 2014 “L’Altopiano di Gianni” con un intervento sui neologismi nati nel periodo della Prima Guerra Mondiale. E’ partner dell’Archivio Storico Dal Molin al quale presta il suo supporto riguardo gli aspetti specifici della lingua italiana nella Grande Guerra. E' autore di “1914-18 PAROLE DAL FRONTE”, Attilio Fraccaro Editore (Bassano del Grappa - 2014). Di seguito potete leggere il testo di un suo articolo pubblicato su “Il Giornale di Vicenza” del 10 agosto 2014.

LA NUOVA LINGUA ITALIANA NATA DURANTE LA GRANDE GUERRA

Durante la guerra del 1914-18, tra i combattenti nacque e si diffuse una grande quantità di espressioni e parole nuove: grazie al loro normale utilizzo, senza mai dimenticare i rispettivi dialetti regionali, i soldati iniziarono a parlare una comune lingua per esprimere sentimenti, pensieri ed azioni: la nazione, unificata dalle Alpi alla Sicilia da poco più di mezzo secolo, stava finalmente raggiungendo anche la sua unità comunicativa e spirituale. Tanti vocaboli usati al fronte si diffusero in tutte le forme, originati dal gergo della “prima linea”, dalla disciplina di caserma o introdotti dalla terminologia tecnica, comprendendo anche i cosiddetti “passatempo”, pubblicati sui fogli di trincea e a torto sottovalutati nella loro utile funzione di introdurre, attraverso il gioco, termini che sarebbero poi divenuti di uso abituale nella vita civile. Pronunciare o leggere molti lemmi e nuovi modi di dire, per un gran numero di soldati, equivalse già ad un importante passo in avanti nell’acquisizione e nella padronanza della lingua italiana. Una fonte di primo ordine, in questo senso, è costituita dai cosiddetti “giornali di trincea”. Tali fogli, destinati direttamente ai combattenti, corredati da vignette e illustrazioni varie (talvolta di pregevole fattura), nelle infinite attese in trincea supplivano al bisogno di dialogo col mondo civile, all’interesse per l’informazione basilare e al desiderio di sdrammatizzare, in qualche modo, i disagi vissuti ogni giorno. Il comune fante riconosceva così se stesso nelle pungenti caricature, nei contributi inviati dai commilitoni alle redazioni e nelle mordaci battute sull’attualità vissuta pubblicate su quelle pagine. Frequenti erano anche i neologismi e i modi di dire che, continuamente ripetuti, entrarono successivamente nella quotidianità: i fogli di trincea si rivelarono così anche un’autentica miniera di nuovi vocaboli e forme espressive, giunti fino ai nostri giorni. Ad esempio, il verbo “arrangiare” era riferito specialmente all’azione di cercare, trovare, o rubare.  “Attaccare bottone” era riferito a un discorso lungo e tedioso. Una cosa fatta “a capocchia” significava senza pensarci adeguatamente. Inelegante ma efficace, “casino” divenne un termine di uso abituale per definire il senso di confusione e disordine. “Cicchetto”, ancor oggi utilizzato nel senso di rimprovero (come allora spiegava “L’Astico”,  stampato a Piovene Rocchette e tra i fogli più letti dai combattenti sulle montagne vicentine), nacque per significare un severo “rimprovero”.”Tagliare la corda”: come s’intende oggi, significava scappare, ed era un’azione senza dubbio motivata anche dalla “fifa”, cioè la paura provata dal “fifone”, esattamente l’opposto del “fegataccio”, il milite coraggioso. “Fesseria” indicava una minchioneria commessa dal militare, per cui “fesso”, inevitabilmente, era il minchione: “far fesso qualcuno” significava dunque imbrogliarlo. ”Grana” era una mancanza, una contravvenzione al regolamento. Quando il superiore si accorgeva dell’irregolarità e ne chiedeva conto, si diceva: “pianta la grana”. Chi non ne lasciava mai passar una era detto “piantagrane”; con “scoppia la grana” si soleva intendere quando qualcuno sta per piantarla. “Fare la mafia” aveva tutto un altro senso, quello di “darsi delle arie”. Con “al tempo! si richiamava qualcuno su un errore appena commesso, e col “bagnare i galloni” si brindava per l’avanzamento di grado. Per “giornate calde” ci si riferiva ai giorni di combattimento. Andare in licenza? Era più facile vederla “col binocolo!” (ironica negazione rigorosamente col punto esclamativo), ovvero solo da lontano. Il “contrattacco” era qualunque attacco fatto dal nemico, mentre “silurare”, verbo temutissimo tra gli ufficiali, era “press’a poco quello che significa bocciare nella vita borghese”. I soldati, molto legati al senso pratico, per “fischiare” intendevano il dover fare a meno, per forza, di qualcosa: era riferito specialmente al bere, al mangiare e al fumare. Se “passare” era il trasferimento di una cosa rubata, prelevamento” si diffuse invece col senso di preda di uomini o di armi fatta al nemico e “sparatoria” come fuoco di vedette. “Stangare” assunse, mantenendolo fino ad oggi, il significato di “punire, colpire, vincere”. “Garantito al limone” era l’accentuazione di un’affermazione. Per i momenti di pausa c’era il “moka” (detto anche “ciurla” o “ciurlina”), ovvero il caffè (frase tipica tra i soldati: “Non è ancora venuto su il moka”). Per “cappello” si intendeva il risentimento prodotto da una lesione alla vanità, all’ambizione, alla presunzione. Quando il risentimento era molto forte si diceva “prender cilindro.” Con “pignolo” la truppa bollava il superiore pedante che si perde in minuzie (in trincea, ad esempio, si poteva sentir dire “cosa viene a pignolare qui?”), mentre con “ciclamino” veniva etichettato colui che si piazzava “nel più profondo del bosco”. Manco a dirlo, ”imboscato” fu tra i termini per eccellenza della Grande Guerra.

Saverio Mirijello è autore di “1914-18 PAROLE DAL FRONTE” - Attilio Fraccaro Editore (Bassano del Grappa - 2014). Il testo dell'articolo che precede è stato pubblicato su “Il Giornale di Vicenza” del 10 agosto 2014.

 

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